Un
filosofo “protestante”.
Ricordo di Mario Miegge
Ricordo di Mario Miegge
(Valerio Bernardi)
Qualche giorno fa è venuto a mancare in
questa vita terrena Mario Miegge, figlio del pastore Giovanni (uno dei teologi
che hanno portato ad una sorta di Barth-renaissance
durante gli anni Cinquanta la chiesa protestante italiana) e, soprattutto
docente di filosofia teoretica presso l’Università di Ferrara (di cui era stato
uno dei fondatori) e, prima ancora, di filosofia della religione. Infatti, nel
1968, era stato tra i primi a vincere un concorso in filosofia della religione,
nsegnamento che, sino a quel momento, era estraneo all’accademia italiana. Il
mio maestro, Giuseppe Semerari, mi ricordava (essendo stato lui componente di
quella commissione) che salirono in cattedra un cattolico (Italo Mancini), un
laico (Alberto Caracciolo) e un protestante (Miegge per l’appunto). La
conoscenza con Semerari aveva portato Miegge a frequentare anche gli ambienti
dell’Università di Bari grazie alla collaborazione che, a partire dagli anni
Ottanta, diede alla rivista di critica filosofica “Paradigmi” (di cui curò
alcuni fascicoli, in particolare uno dedicato alla varietà delle manifestazioni
religiose). Questa sua frequentazione mi ha permesso di conoscerlo, di
diventare un suo interlocutore (anche se saltuario) e di avere sempre buoni
consigli da parte sua per quanto riguardava il mio ricercare nel campo
filosofico. La sua opera è stata sempre strettamente collegata al pensiero
protestante e, in particolare, al problema del rapporto che vi era tra
vocazione, lavoro e capitalismo in esso. Per meglio ricordare la sua opera, ci
pare opportuno, in questa rubrica, riproporre alcune mie recensioni (di cui una
pubblicata nel LL) di suoi libri che permettono di consocere meglio il suo
pensiero teologico-filosofico, che gli ha permesso di dare un contributo
originale agli studi filosofico.teologici in Italia. Ecco qui di seguito le tre
recensioni, collocate in ordine cronologico che attestano anche la mia
affezione nei confronti di questo pensatore e l’attenzione che gli ho rivolto
nel corso degli anni.
Mario
Miegge, Capitalismo e modernità. Una
lettura protestante, Claudiana, Torino, 2005, pp. 74.
Il
volumetto pubblicato dalla Claudiana di cui è A. il pensatore protestante,
altro non è che la traduzione della voce Capitalisme,
pubblicata nel 2001 per l’Encyclopédie du
Protestantisme della Labor et Fides di Ginevra.
Si
ripercorre in quattro rapidi capitoli il rapporto che vi è stato tra
capitalismo, laicità e modernità proprio a partire dal pensiero di riformato,
visto, in questo caso, come predecessore della modernità. Dopo aver analizzato
come la vocazione al risparmio e al lavoro sia stata una variante del concetto
di elezione del calvinismo e su come questo concetto sia stato in parte
travisato dalla interpretazione weberiana (tra l’altro ancora molto accettata
dagli studiosi italiani non protestanti), Miegge discute come questo concetto
sia parte di quel “calcolo razionale” (in cui si interpreta il dovere al lavoro
come un segno della chiamata) usato da
diversi pensatori protestanti a partire da Calvino per passare poi ai Puritani
(sia quelli inglesi sia quelli che fondarono gli Stati Uniti).
Miegge
analizza come da questo concetto secolarizzato, mutuato da una forte matrice
teologica, siano derivati, soprattutto nei paesi che hanno subito maggiormente
l’influenza protestante, il concetto di laicità e un maggiore coinvolgimento di
tutta la società nella cosa pubblica. Proprio per questo motivo, sempre in
questi paesi, oltre allo sviluppo del capitalismo sono nati anche i meccanismi
di “aggiustamento” dello stesso, come lo Stato sociale, i nuovi giochi dello
scambio e la tenuta in conto dello sviluppo dell’uomo, in genere.
Si
tratta, in conclusione, di un saggio che ritorna ai temi più cari all’A. e che
in qualche modo riassumono le sue posizioni. Il volume va quindi letto da
coloro che vogliono cercare di capire come si sia sviluppato il pensiero di
questo autore protestante italiano.
Mario Miegge, Che cos’è la coscienza storica?, Feltrinelli, Milano, 2004, pp. 235.
Il
volume preso qui in esame sonda, da un punto di vista filosofico e politico, ma
anche teologico, il concetto di coscienza prima e di coscienza storica poi.
L’A. ha
diviso il testo in tre parti. Nella prima parte si discute del significato
delle parole e dei concetti insiti in esso. Viene prima preso in esame il
concetto di coscienza, sondandolo sia da un punto di vista semantico che
psicologico e poi ad esso viene affiancato quello di storia, tipico della
cultura occidentale che si è formata un vero e proprio sentire e riflettere sul
proprio passato che non ha uguali nella cultura del mondo e che va attribuito
sia alla riflessione dei Greci che al continuo riportare alla memoria presente
nella cultura ebraica e, in particolare, nella teologia del patto.
Proprio
partendo da queste due radici della coscienza storica inizia la seconda parte
del saggio (quella più corposa) in cui sono esaminati esempi e autori della
coscienza storica. Si inizia parlando della cultura dell’Antico Testamento,
parlando sia del re Ezechia che delle popolazioni di Moab, per poi passare a
vedere quale fosse la coscienza che si era formata presso i Greci durante il
periodo delle guerre persiane. Un capitolo è dedicato al concetto di storia
universale che, per la prima volta, affiora nella mentalità ebraica. Il Dio
d’Israele è, infatti, il Dio dell’universo che regola la storia di tutti i
popoli e, in particolare di quello scelto per il tramite di Abramo e Mosè,
attraverso il patto stretto con questi patriarchi. Alla predicazione messianica
ed al senso di storia è legato anche il capitolo dedicato a Savonarola, a
Zwingli e ai Puritani. Dai Puritani Miegge passa poi all’esame dei
Rivoluzionari francesi e dei rivoluzionari marxisti tra Otto e Novecento. La
sezione si conclude con un richiamo a testi che vengono definiti basilari come
quelli dei Padri Pellegrini del Mayflower,
le dichiarazione dei garibaldini e alcune della Resistenza italiana.
Il
volume è chiuso da un dialogo immaginario, introdotto da uno scritto di
Vittorio Foa (uno dei testimoni della Resistenza), su come i militanti (di
religione o di partito) abbiano sempre fede nell’evoluzione storica, dove tre
persone Anna, Matteo e Antonio dialogano tra loro Antonio sembra essere il più importante ed anche quello che, più
anziano, rievoca, oltre ad una tradizione politica, anche parte delle sue
radici religiose. Il dialogo costruito, quasi platonicamente, appare
interessante, anche se non sempre appaiono chiare le conclusioni.
Il
libro, soprattutto nella parte centrale, appare interessante per la tesi che vi
è uno stretto legame tra militanza politica e religiosa e che anche i movimenti
operai e rivoluzionari contemporanei sono pervasi da un certo messianismo.
Forse si sarebbe desiderato una maggiore chiarezza sulla posizione dello scrivente
del saggio che, anche se traspare nella figura di Antonio, non sembra essere
sempre chiaro nell’esposizione della sua posizione. Resta un saggio
interessante da leggere perché Miegge è uno dei pochi intellettuali italiani
che tenta di coniugare militanza, pensiero filosofico e fede insieme, e, anche
se non sempre concordiamo con le sue posizioni, esse vanno comunque apprezzate.
M.
Miegge, Vocazione e lavoro, Claudiana,
Torino, 2010.
Nel mondo
sempre più globalizzato in cui ci troviamo, a parte qualche rara eccezione,
anche in Occidente, lavorare è sempre più una semplice maniera di guadagnarsi
da vivere, senza che questa possa tramutarsi in una sorta di chiamata da parte
di Dio. In Italia, poi, la situazione forse è peggiore di quella di altri paesi
in quanto, oggi, secondo alcune indagini statistiche, sembra che il posto di
lavoro o il lavoro che si fa passa da padre in figlio (nel caso di posti
“privilegiati”) o faccia intravedere un futuro di costante precariato (vedi
precari nella scuola, operatori di call center etc.)
Eppure il
mondo moderno, dopo l’avvento della Rivoluzione Protestante, non aveva visto il
problema del lavoro, da un punto di vista teologico, come un qualcosa di degradante,
ma come un momento in cui l’umanità poteva acquisire ulteriore dignità. Per
capire come il concetto del lavoro secolare fosse, tra il XVII e il XVIII
secolo, collegato, nel pensiero protestante a una chiamata direttamente
proveniente da Dio, e di come la portata di questa idea debba essere
considerata “rivoluzionaria” non per quanto scritto a inizio del XX secolo dal
sociologo tedesco Max Weber, ma perché realmente cambia l’idea di vita di
milioni di uomini in Europa..
L’opera
di Miegge non è una novità: potremo dire che si tratta del saggio di una vita
del filosofo valdese che sin dagli anni Settanta ha lavorato su questo testo
(in precedenza ne erano uscite due edizioni parziali prima da Bovolenta con la
prima parte del libro, poi in francese da Labor et Fides con il libro così
com’è ad eccezione dell’ultimo capitolo) e che l’ha rivisto e limato nel corso
degli anni. Dare una precisa definizione di questo testo è difficile perché
Miegge ha voluto scrivere un saggio che è una via di mezzo tra una ricostruzione
storico-teologica e un testo filosofico con qualche “punta” di sociologia e,
per questo motivo, la casa editrice ha pensato che la migliore collocazione
fosse quella degli studi storici, collocazione solo parzialmente appropriata.
Il testo,
in realtà, dopo la nuova Prefazione dell’A., che spiega la tela del suo disegno
e fa comprendere al lettore come vada inserito l’ultimo capitolo inedito nelle
edizioni precedenti, nei suoi primi cinque capitoli, che rappresentano più dei
due terzi del testo, è da considerarsi un saggio storico-teologico. Si parte da
una serie di riflessioni sul concetto di chiamata nell’interno della Riforma
Protestante per soffermarsi su come tale idea si sia modificata all’interno
della stessa Riforma Protestante, passando dal più “tradizionale” luteranesimo
per arrivare a quanto affermato da alcuni autori della Nuova Inghilterra e
dell’Inghilterra del XVIII secolo. L’A. si confronta con L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber per
mostrare come questa prospettiva (protestantesimo come fattore decisivo per la
genesi del capitalismo) fosse superata già negli anni Sessanta quando, dopo gli
studi di Perry e Walzer, era evidente che la preminenza del termine vocazione
fosse teologica e che tale idea fosse stata applicata oltre che alla general calling (la chiamata alla
salvezza per Grazia e all’impegno ecclesiastico tramite il concetto di
sacerdozio universale) anche alle particular
callings (ovvero i lavori particolari nel mondo secolare).
Per
dimostrare la limitatezza della tesi weberiana e per analizzare la
particolarità del concetto, Miegge prende in esame la trattatistica sulla
vocazione di stampo puritano tra XVII e XVIII secolo, soffermandosi in
particolare su Williams Perkins e Richard Baxter, ma passando anche attraverso
l’opera di Steele e l’analisi di alcuni trattati sulla mercatura francesi di
questi due secoli. E’ questo il nucleo centrale del volume. L’analisi mostra
come, partendo dalla tradizionale concezione di Calvino che, tra i Riformatori,
è il primo ad aprire verso il lavoro umano come possibile risposta alla
chiamata divina, ancora ai tempi di Perkins, massimo teologo calvinista
dell’Inghilterra elisabettiana, il concetto di chiamata divina era applicato
principalmente alla religione e, in seconda battuta, alle attività a favore
dello Stato per poi ammettere che particular
callings erano anche i mestieri, prima quelli intellettuali e poi quelli di
tipo materiale. Questa visione piuttosto tradizionale, a parere di Miegge,
dimostra come la preminenza dell’agire razionale economico non era presente
nella trattatistica del XVII secolo dove, invece, era prevalente l’interesse
per l’agire politico e per l’interesse della Res Publica. Una tale tesi combacia con quella di Walzer nella sua Rivoluzione dei Santi, dove lo studioso
ebreo-americano mostra come la reale vocazione puritana fosse quella di fondare
una nuova res publica sanctorum dove
tutti avessero il privilegio di sentirsi chiamati da Dio.
La
riflessione continua con la lettura del trattato di Richard Steele dove per la
prima volta, come dice l’A., assistiamo a una vera e propria spiritualizzazione
dei mesteri. In questo trattato, scritto da un pastore dissenter in un periodo in cui questo gruppo di uomini aveva di
fatto iniziato a perdere il proprio potere politico, mostra come s’inizi a dare
sempre più importanza al lavoro, perché ci si rende conto che il credente non
ha più spazi all’interno della società. Per Miegge il cambiamento di Steele,
che diviene ancora più evidente in Baxter, è un cambiamento che tralascia
l’interesse politico e che accetta la situazione della società senza più
volerla cambiare, ma cercando comunque di primeggiare (in quanto eletti da Dio)
nel campo in cui rimaneva spazio: quello dell’economia.
Questa
riflessione di Steele e quella più tarda di Baxter, che vivrà in un’Inghilterra
in cui i dissenters hanno del tutto
perso i propri diritti politici, porta a una visione si teologica ma anche
laica del lavoro che deve portare soddisfazione all’individuo e che, al
contrario della tradizionale visione tomista (di cui Miegge parla nel quinto
capitolo, l’ultimo dedicato alla ricostruzione storica) non vede più il lavoro
manuale come una sorta di condanna voluta da Dio assolta dall’uomo, ma come una
vocazione, un’attività in cui il credente (soprattutto quello provenente dal
Puritanesimo) vede la sua chiamata. Una tale concezione del lavoro, quella
scaturente in particolar modo dal trattato di Baxter, mostra un notevole cambio
di paradigma rispetto alle idee originarie del calvinismo inglese che si
possono vedere in Perkins, ma ha il vantaggio, pur essendo contestabile per la
marginalizzazione dell’attività politica, di dare una dignità all’azione umana.
L’idea di
Baxter, a parere di Miegge, può avere delle similarità con quella di Hannah
Arendt, cui è dedicato il sesto capitolo del volume. In sostanza, secondo
Miegge, benché la Arendt di Vita Activa
analizzi la dignità del lavoro e benché il suo concetto di lavoro somigli a
quello di Baxter, la scarsa contestualizzazione dello sfruttamento nel lavoro e
la poca attenzione (se non in via talvolta polemica) data agli scritti della
Scuola di Francoforte, rendono il pensiero della Arendt utile per il XX secolo,
ma non completo nella sua dimensione comprensiva dello status sociale di chi lavora. Così si concludeva il volume
ginevrino. L’edizione del testo pubblicata da Claudiana, invece, continua con
ultimo capitolo intitolato Lavoro e
vocazione nel tempo della crisi.
Il
filosofo valdese in questa ultima parte del testo affronta la situazione
lavorativa dell’oggi, distante molto dalla situazione dei puritani agli albori
dell’età moderna. La precarietà, la fine del lavoro, la sua globalizzazione, a
parere di Miegge, rendono problematica la via vocazionale al lavoro. Ecco che,
però, nel XXI secolo si aprono nuove porte cui i credenti possono accedere: il
cosiddetto terzo settore, i lavori “verdi” che forse potrebbero riportare in
auge la particular calling di
puritana memoria, facendovi rientrare anche l’interesse per la polis, ovvero per la società.
Il testo
di Miegge è stato per me un tuffo nel passato, quando giovane studente di
filosofia a Bari lessi per la prima volta il testo pubblicato da Bovolenta con
un certo orgoglio di aver trovato un filosofo italiano protestante che cercava
di far meditare la nostra stessa nazione. La ripubblicazione ampliata non può
che farmi piacere e il consiglio della lettura per tutti coloro che sono
interessati a questioni come il lavoro e la vocazione necessaria. Nonostante il
linguaggio talvolta specialistico, il testo può essere compreso da un lettore
che ha voglia di impegnarsi. Se una nota di critica va fatta è che forse
l’ultimo capitolo poteva confrontarsi, oltre che con la filosofia e la
sociologia, anche con il pensiero teologico odierno. Lavori come quello di
Placher in America e di Herms in Germania andrebbero letti con attenzione.
Valerio Bernardi -. DIRS GBU
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