Lunedì letterario del 6 Ottobre 2014
D. Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, pp. 105, € 12,50
La pace, shalom
(p. 103), non può darsi senza la giustizia. Non è dunque l’opposto della
guerra, e non può imporsi con l’uso della violenza e delle armi.
D. Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, pp. 105, € 12,50
(Daniele Mangiola)
Continua, sempre, Israele, ad essere al centro delle
attenzioni del mondo. La questione palestinese divide e continua a dividere. Da
un lato coloro che difendono Israele a oltranza, difendono il suo diritto alla
terra e alla sovranità, che denunciano nella ribellione/resistenza dei
palestinesi un disegno anti-Israele ben più vasto in cui i diritti dei civili
sono soltanto un paravento ad arte usato per fini ben più bellicosi. Dall’altro
lato coloro che considerano Israele alla stregua di un invasore, uno dei tanti
potenti della terra che opprime, con il solo diritto acquisito della forza, una
popolazione a cui ha strappato il diritto alla terra e alla sovranità, che
denunciano dietro Israele il solito grande vecchio gioco degli interessi
economici e politici di una ristretta classe di privilegiati.
Il nome “Israele”, è “attraversato da un’ambiguità
semantica” (p. 9), dice Donatella Di Cesare in Israele. Terra, ritorno, anarchia, edito quest’anno da Bollati
Boringhieri. Non semplicemente uno stato, un’entità politica, Israele è prima
di tutto un uomo, Yakov, che ha sfidato Dio, e dopo lui tutti i suoi
discendenti. La storia del Libro è la storia di Israele, il suo destino,
inscindibilmente teologico e politico. È utile, per seguire l’intento della Di
Cesare, indagare le tre parole del titolo: “terra”, “ritorno”, “anarchia”.
Terra: Popolo nomade, esiliato, scacciato, in fuga, nascosto
tra gli altri, pellegrino e profugo, rifugiato e straniero, Israele ha
conosciuto tutte le terre del mondo eppure Eretz
sta al centro della sua storia, della sua essenza, della sua spiritualità. Su
cosa si fonda la pretesa rivendicata sulla terra di Palestina, oggi? “Eretz Yisrael non è una terra
ancestrale, non è rivendicata come terra-madre… in nessuna epoca della storia
di Israele questa terra è stata semplicemente possesso del popolo” (p.48).
Eppure in nessun tempo, in nessun luogo, Israele ha smesso di rivolgere il
proprio pensiero alla terra promessa. Ma una terra promessa è una terra a cui
si giunge da fuori, come uno straniero. Eretz
è dunque meta da sempre attesa, luogo di approdo, ma proprio per questo
“inappropriabile” (p. 42). Ma questo destino originario non è in fondo il
destino di tutti i popoli? Quale gente o etnia non ha rubato, conquistato,
occupato, ad un certo momento della propria storia, la terra che abita? “Perché
ogni popolo è invasore di una terra che non gli appartiene e che può abitare
solo se serba il ricordo della sua estraneità” (p. 42).
Da sempre Israele è l’esiliato, il senza terra e la vicenda
dello Stato di Israele passa attraverso la vicenda del sionismo. Con lucidità i
teorici del sionismo, tra cui Theodor Herzl compresero che l’affermazione
dell’identità ebraica doveva passare dall’appropriazione della terra. Per
ottenere il riconoscimento delle altre nazioni bisognava rinnegare la propria
unicità diventando una nazione “normale”.
La Di Cesare ricorda l’evoluzione del sionismo e le sue
diverse correnti, le voci critiche (Buber, Roth, Arendt) che dall’interno
compresero il rischio della tentazione alla rinuncia della propria identità (p.
24). Il sionismo non doveva essere inteso come un nazionalismo. “Le patrie che
gli stati-nazione hanno costruito per i popoli si sono rivelate trappole senza
uscita” (p. 40). Essere senza patria, essere straniero, oggi, significa essere
senza diritti.
In faccia al mondo, invece, diverso è il destino del popolo
ebraico. Il Libro sempre gli ricorda la sua condizione di straniero e in nome
di essa ribadisce ovunque e sempre il diritto dello straniero.
Politicamente parlando, oggi, la soluzione dei due stati,
proposta da molti, Palestina e Israele, non risolverebbe la questione in quanto
rimarrebbe all’interno della prospettiva del diritto di possesso, di
appropriazione della terra, della differenza tra autoctono e straniero. Come è,
dunque, come può realizzarsi un “abitare altrimenti”, “abitare
nell’estraneità”(p.45), che non consideri la terra come possesso esclusivo e
discriminante, non solo per Israele, ma in ogni angolo del mondo?
“Il compito del
popolo ebraico è molto concreto: santificare la terra costruendo una società
giusta” (p. 52)
Ritorno: Nei lunghi secoli di esilio mai Israele ha
dimenticato la propria terra. “Il popolo nomade e disperso non ha mai smesso di
aspirare al ritorno” (p. 17). Un ritorno che non può essere in alcun modo
considerato un “rimpatrio”, in quanto si tratta della terra promessa, non luogo
di origine, ma già di per sé luogo d’esilio, al quale Abramo si dirige dopo
aver accettato il comando di abbandonare la terra natìa. La tentazione potrebbe
dunque essere quella di dimenticare il proprio destino di errante ed “esibire
una volontà di dominio e non una disposizione all’ospitalità” (p. 47).
Perciò il ritorno non può essere inteso come un ritorno alla
propria origine, al passato, bensì come un riappropriarsi della promessa, che
proprio perché promessa non può che essere volta al futuro. “È come se, nella
storia dei popoli, che lungo i secoli sono andati spartendosi i territori,
Israele abbia fatto ritorno per disturbare quella spartizione, per contestarla
nel mezzo delle frontiere, proprio su quella terra. Segno profetico di un
passaggio della Trascendenza fra i popoli” (p. 45). Dunque il ritorno è
riparazione, e se il riferimento è la comunità antica non è però nel senso di
una semplice restaurazione: “tornare vuol dire piuttosto andare oltre” (p. 67).
Perciò il ritorno non si conclude con l’insediamento nella
terra promessa, ma il destino è quello di realizzare quell’abitare altrimenti,
“che infranga il sistema degli stati-nazione e dischiuda, nel solco terrestre e
celeste della giustizia, un nuovo ordine del mondo” (p. 52).
Anarchia: Per quella sua originaria ambiguità, Israele non è
semplicemente una nazione, ma è anche la comunità dei discendenti di Yakov,
dunque,“quanto più il popolo si riconoscerà in una alleanza, tanto più porterà
Sion nel mondo, redimerà i popoli” (p. 77) e se gli stati-nazione si sono
rivelati delle gabbie con le loro pretese di dominio sulla terra e sui popoli, può
essere giunto il tempo di una nuova testimonianza di come essere comunità,
disinnescando i tradizionali poteri dello Stato. Una comunità profetica, perché
fondata sul Libro “intessuto di discorsi sovversivi, che ha sfidato apertamente
sovrani e imperi” (p. 53).
Qui è Buber il principale riferimento della Di Cesare.
Nessuna forma di governo, per quanto rivoluzionaria può portare alla
redenzione, il tempo messianico non è alla fine del tempo, non è il risultato
di un progresso, è invece una rottura, un’interruzione del tempo, l’irruzione
del nuovo. Un’idea già contenuta nella tradizione ebraica, nella Torà e nei
profeti (p. 65). Ed è evidente che il Regno del Messia non può essere un regno
umano. La teocrazia si è fondata sull’indole anarchica di questo popolo nomade
dalla “dura cervice”, incapace di sottomettersi e che si è piegata soltanto al
suo Redentore, suo unico Melek,
laddove gli altri popoli avevano un melek
umano.
Il nuovo ordine del mondo passa attraverso un ritorno alla
comunità intesa come lo spazio del noi, della condivisione, in opposizione al
mondo contemporaneo, atomizzato, centrato sull’individuo.
Il terzo capitolo del libro è dedicato dalla Di Cesare ad
una “escatologia della pace” (p.86), una riflessione su come ripensare il
conflitto israelo-palestinese per non vederlo appunto più come un conflitto.
Il pensiero occidentale ha sempre visto la pace come la fine
della guerra. Non è riuscita mai a liberarsi dal luogo comune della pace come
negazione della guerra. Se la pace è il fine della guerra, se non è possibile
raggiungerla se non attraverso il conflitto, allora la pace, in una visione
progressista è il compimento della guerra. Come uscire da quest’ottica? Come
andare “al di là dell’ontologia della guerra” (p. 98)?
Qui è Levinas, soprattutto, il punto di riferimento della Di
Cesare. L’altro irrompe nella prospettiva dell’io e si impone con la sua
differenza assoluta. La preoccupazione per l’altro e non la preoccupazione per
me, è il gesto etico di evasione dalla totalità, l’al di là della guerra.
L’irruzione dell’altro interrompe il tempo dell’io. In una prospettiva
messianica la pace non è da intendersi alla fine del tempo della guerra, è una
rottura del tempo, un’irruzione del “nuovo a-venire”,
“l’irruzione, nella storia, della pace messianica” (p. 99).
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