Antonio Vigilante, L’educazione è pace. Scritti per una
pedagogia nonviolenta, Edizioni del Rosone, Foggia, p. 228, € 16,00
Recensione di Daniele Mangiola
Quando si parla di buona educazione, alcuni principi
sembrano essere proprio la base comune, universale, dalla quale partire. Sembra,
ad esempio, che per essere un buon educatore sia indiscutibile presupposto il
fatto che non si possa anche essere amico dell’educando. Un genitore non può
essere amico dei propri figli. Sembra altrettanto accertato anche il fatto che
per educare bene bisogni saper
mantenere una adeguata distanza emotiva. E ciò
perché alla fine la parola pedagogica mantenga il giusto mordente presso colui
che deve essere educato. Sembra ovvio che l’educazione veda in campo due
soggetti dei quali l’uno disponga di una conoscenza, di una modalità di
esistenza, da offrire all’altro che ne sia al momento sprovvisto o comunque in
uno stato di non completa padronanza.
Quello che sembra assolutamente ovvio è che la relazione
educativa sia una relazione “asimmetrica”, come la definisce Antonio Vigilante
nel suo “L’educazione è pace”, per Edizioni del Rosone, del 2014. Asimmetrica
nel senso che una delle due parti assume il ruolo di guida, modello al quale
l’altro deve tendere, ubbidire, sottomettersi. E se l’educazione comporta la
sottomissione al modello proposto, anche al costo di reprimere la propria
naturale inclinazione, se comporta l’essere condotti, se occorre, anche con una
dose di coazione, se implica premi e punizioni, incentivi e disincentivi,
allora bisogna dirlo, l’educazione è competizione e lotta.
L’intento del testo di Vigilante è porre in questione tutto
quanto fin qui detto come ovvio: “L’educazione ha a che fare, in modo
essenziale, con la pace. Non nel senso che la pace sia il fine o uno dei fini
dell’educazione, ma in un altro, più radicale: educare vuol dire fare in modo
che accadano, qui ed ora, situazioni di pace. La pace non è uno scopo
dell’educazione, ma è tutt’uno con l’educazione stessa. Se c’è pace, c’è
educazione. Ogni volta che entra la pace nella quotidianità di una persona, si
può dire che quella persona si sta educando” (p. 15)
Nel momento in cui una persona educa se stessa cade il
modello tradizionale in cui l’educazione avviene per il tramite di un educatore
e anzi si afferma che soltanto l’individuo ha il diritto di modellare,
trasformare eventualmente, se stesso; cade la tradizionale distinzione di
ruoli, il confitto diventa confronto, l’insegnamento diventa dialogo. Si
sfumano le posizioni perché colui che educa, anch’esso, educa se stesso,
nell’atto di educare.
Non si tratta di un testo sull’educazione alla pace, precisa
Vigilante, in quanto la pace non può essere un obiettivo (tra i tanti) ma è
tutt’uno con l’educazione stessa. Ed è questo il motivo per cui nei testi di
grandi maestri della nonviolenza, come Gandhi, Aldo Capitini, don Lorenzo
Milani, che sono stati anche grandi educatori, non c’è traccia di un’educazione
alla pace, perché per essi è ovvio che la pace è il presupposto stesso
dell’educazione. Ed è importante considerare la dimensione politica perché solo
dove c’è pace ci può essere politica, essendo falsa la celebre affermazione di
Von Clausewitz, in quanto la guerra non è affatto la continuazione della
politica, ne è, semmai, la fine, come è evidente nei regimi totalitari, dove
ogni dialogo, ogni confronto politico è ridotto al silenzio.
Il testo è una raccolta di saggi precedentemente pubblicati,
alcuni dei quali tra le pagine di Educazione Democratica, rivista diretta dallo
stesso autore. Attingendo alla propria esperienza di insegnante, Vigilante fa
abbondante riferimento alla situazione educativa scolastica, analizza il
sistema scuola individuandone alcune criticità e avanzando alcune proposte
volte a potenziarne l’obiettivo pedagogico. E certo la scuola è il luogo
simbolo della relazione educativa, dove educatore e educando si incontrano rivestendo
esclusivamente i rispettivi ruoli, ma l’autore trascende dalla situazione
scolastica per andare alla radice del problema. Perché prima ancora che del
modello pedagogico di riferimento, quello che conta è il modo della relazione
stessa, del qui ed ora del rapporto che si instaura.
Il rischio della violenza è sempre insito nella relazione
educativa, magari in forme sublimate, raffinate, evitando la violenza fisica,
ma facendo ricorso al ricatto psicologico, a tutte le forme di apprezzamento e
svalutazione, spingendo alla competizione, e comunque ogni volta che si
disinteressa del qui ed ora della persona per concentrarsi sull’immagine ideale
a cui tendere, “una doppia violenza. Da una parte, l'educando è vittima di
violenza perché non può esplorarsi liberamente, ma è chiamato a conformarsi ad
un modello pensato da altri; dall'altra, l'educatore è vittima di violenza
perché è costretto a fissarsi nel ruolo del modello educativo, e per farlo deve
nascondere le sue fragilità” (p. 22). Al contrario, in una “relazione
simmetrica” ciascuno è liberamente se stesso e il cammino verso la conoscenza
si fa insieme, nessuno è fissato in un sapere immobile. L’educazione si fa pace
quando la nozione diventa esperienza e l’esperienza diventa intelligenza. A
queste riflessioni sono dedicati il primo saggio, Educazione è pace, e il
terzo, Nonviolenza ed educazione. In particolare nel terzo si indica il valore
di accogliere le istanze del pensiero nonviolento nell’educazione, facendo
ampio riferimento all’opera di Aldo Capitini e del suo amico e discepolo Danilo
Dolci.
La difficoltà di educare in una società che promuove
l’imperativo del desiderio, la violenza della seduzione e il miraggio del
piacere è oggetto del secondo saggio, Educare nella società delle merci. E La
situazione educativa, propone di andare oltre “il paradigma dell’imbuto”,
secondo il quale l’educando, il figlio sono visti come soggetti da modellare
selezionando le qualità individuali da promuovere e quelle da epurare ai fini
di una corretta educazione, secondo la quale “i no aiutano a crescere”,
forgiano il carattere, selezionano le buone qualità e disincentivano gli innati
“vizi” della personalità. Un paradigma che si fonda sul fondamentale
disconoscimento di quello che il bambino è al presente in funzione di un
progetto futuro di persona adulta. Così la naturale creatività e fisicità
dell’infanzia vengono imbrigliate in nome di un ideale di saggezza intesa come
posatezza, disciplina, capacità di sacrificio. Una situazione educativa fondata
sulla pace non può, al contrario, ledere il “potere” di ciascuno, inteso come
la coscienza di poter fare, perché quando il potere diventa unilaterale allora
si muta in predominio dell’uno sull’altro.
E, contrariamente al luogo comune secondo il quale nel
processo educativo è necessario instaurare una certa distanza emotiva tra
educatore ed educando, invece un’educazione che è pace non può prescindere
dalla spiritualità delle persone implicate nella relazione. Una spiritualità
che non intende interferire con le credenze religiose ma attinge al profondo
della persona. Interessante l’indicazione al “vedere l’altro dell’altro”.
Riprendendo il celebre passo dei miserabili in cui il vescovo protegge Valjean
dai gendarmi regalandogli i candelabri che aveva rubato, Vigilante si rifà al
Vangelo: “il vescovo ha fatto quello che dovrebbe fare ogni cristiano: ha messo
in pratica il Vangelo. «A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a
chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da’ a chiunque ti chiede; e a
chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete gli uomini facciano a voi,
anche voi fatelo a loro» (Luca, 6, 29-31)” (p.66). Il vescovo ha permesso a
Valjean di aprirsi al bene e di uscire dal circolo vizioso del male. Per
contro, secondo l’autore, il cristianesimo avrebbe prodotto una seconda
interpretazione del passo di Luca, con la morale di Paolo (fa riferimento a
Romani 12,19-20, al lasciare la vendetta al Signore). Se Paolo consiglia di
astenersi dalla vendetta, di far del bene ai nemici per radunare dei carboni
accesi sul loro capo, dice l’autore, il suo intento non è affatto il bene del
nemico, il quale è lasciato a se stesso e alle conseguenze del proprio male
(che arriveranno). Ma probabilmente questa analisi sottovaluta la situazione
politica in cui si muovevano i cristiani a cui Paolo parlava e, forse, potrebbe
considerare la metafora dei carboni accesi in senso pedagogico, come appunto di
colui che, ricevuto un bene, è messo in crisi da questo al punto da
riconsiderare il circolo vizioso in cui è intrappolato. La contrapposizione
Gesù-Paolo è molto diffusa e non considera abbastanza, forse, il fatto storico
che il Gesù di cui parliamo di fatto è il racconto delle stesse comunità
paoline, fissato per iscritto soltanto successivamente al sorgere delle
comunità ammaestrate da Paolo.
Interessante è ancora la questione dell’identità tra
educazione e discorso educativo, per nulla considerata né dalla scuola né
dall’educazione familiare tradizionale, secondo la quale è più importante
l’obiettivo, la morale, la nozione, l’oggetto della conoscenza, che la modalità
stessa in cui questa viene trasmessa. Al contrario, invece, ben oltre i
contenuti, è proprio la forma stessa della situazione educativa ad essere
educazione perché è proprio attraverso essa che si esprime il progetto di vita,
il progetto politico che si ha in quanto educatori: che mondo immaginiamo? Che
tipo di rapporti interpersonali? Fondati su che tipo di valori?
Molti altri argomenti interessanti sono affrontati, ad
esempio nel saggio Abbiamo il diritto di educare?, dedicato al pensiero di
Tolstoj e ancora in Educazione e violenza in Alice Miller, che meriterebbe una
maggiore attenzione. Ci sarebbe anche qualcosa da dire sulla solita critica a
Dio dell’AT, espressione di una morale punitiva e repressiva, che non tien
conto della progressiva rivelazione del carattere benevolo di Dio come anche
delle continue manifestazioni di cura e protezione nei confronti di Israele e
soprattutto ostinatamente insiste nel contrapporre Antico e Nuovo senza volerli
vedere come aspetti diversi di un unico discorso.
Gli ultimi due saggi aprono poi una riflessione sulla
cultura orientale. Educazione e meditazione, avanza la proposta di far entrare
le tecniche di meditazione nei programmi pedagogici. S’intende, ovviamente, che
la proposta di Vigilante riguarda una meditazione esclusivamente laica,
estrapolandola dal contesto religioso in cui è sorta. Una meditazione che educa
l’individuo alla coscienza di sé, alla concentrazione, al pensiero sul presente.
Infine l’ampio saggio La bellezza oltre la mente, dedicato all’insegnamento
pedagogico di Krishnamurti.
Essere educatori e genitori cristiani ci espone alla
tentazione costante di riassumere la rivelazione biblica in un corpus di
precetti morali divini, dunque inderogabili. Ci sentiamo addosso questa
responsabilità e questa missione, che la volontà di Dio sia rispettata. È
necessariamente così? Abbiamo il dovere di essere totalmente concentrati su un
modello di virtù, di stigmatizzare l’errore, tolleranti, certo,
compassionevoli, ma determinati alla meta? È così che Dio si è relazionato a
noi? E ancora, abbiamo davvero una responsabilità spirituale così forte nei
loro confronti? Di fronte a Dio, potrebbe esserci la possibilità di considerare
i nostri allievi, i nostri figli, semplicemente come nostri fratelli?
Un’immagine: Gesù e la prostituta. Che tipo di gesto
pedagogico è il suo che 1) ridimensiona il moralismo della folla che voleva
lapidarla 2) non trattiene la donna, dispersa la gente, per ottenere da lei
ravvedimento 3) le dice “neanche io ti condanno”? Sembra proprio che
l’obiettivo primario di Gesù sia stato quello di mettere pace nel cuore dalla
donna, non quello di correggerla. Di permetterle, nella pace, di educare se
stessa.
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