lunedì 4 maggio 2015

Adulti e bambini: due mondi in conflitto?



Didier Pleux, De l’enfant roi à l’enfant tyran, La Flèche, Odile Jacob, 2014, pp. 287, € 8,90
Recensione di Daniele Mangiola

La prima volta che ho sentito parlare di “bambino tiranno” è stato durante una conferenza sulla paternità tenuta da un prelato. È una situazione sempre più frequente, quella di un’intera famiglia tenuta sotto scacco dalle pretese e intemperanze di un bimbetto di 3, 5, 7 anni. Adulti disfatti e smarriti, incapaci di contenere l’esplosività dei pargoli, oppressi dalla perdita della propria libertà a causa delle continue richieste di piccoletti di meno di due lustri d’età. Cosa sta accadendo?
Didier Pleux è uno psicologo clinico, direttore dell’Institut français de thérapie cognitive. Autore di numerosi saggi. Un esperto che si occupa nella propria quotidiana pratica clinica appunto di aiutare famiglie sottomesse da bambini tirannici. Aiutarle a ritrovare una normalità familiare, aiutarle a ridefinire i propri equilibri interni attraverso una riappropriazione dell’autorità parentale.
La cosa che colpisce del libro di Didier Pleux è l’atmosfera che si respira. C’è una battaglia in corso, tra mondo dell’infanzia e mondo degli adulti. Il bambino è apparentemente un essere fragile, innocuo, debole, ma si tratta di un’immagine ingannevole, creata ad arte dal bambino stesso e con l’obiettivo specifico di sconfiggere le resistenze dell’adulto.
A seconda dei casi si fa passare per vittima o al contrario mette paura agli adulti, inganna i genitori oppure li seduce. E tutto questo in modo cosciente, facendo leva sull’apparenza di vulnerabilità del suo infantile aspetto sotto il quale si cela invece un fine e spietato stratega. Un bambino che sa utilizzare molto bene la dialettica dando l’impressione di intelligenza precoce, ma, rivela Pleux, è solo un’impressione che inevitabilmente si ridimensiona ad un veloce test psico-attitudinale: si tratta di bambini normodotati, per nulla eccezionali.
Clinico stimato e scrittore di successo, grazie anche questa originale formula dell’”enfant tyran”. I suoi libri si vendono e si ristampano, in Francia e all’estero, come in Italia, dove il testo qui presentato è edito col titolo “In famiglia comando io”. Fare lo scrittore è un mestiere ingrato di questi tempi. Tenersi stretti i lettori, crearsi un seguito di fedeli, è una cosa faticosa, che implica un certo savoir faire. Gli slogan, le terminologie ad effetto, le tecniche pubblicitarie, sono fondamentali. Così, visto che l’espressione “enfant tyran” funziona, la devi far girare il più possibile, e dunque non ci sono soltanto i bambini tutti tiranni, ma anche quelli parzialmente tiranni, quelli che lo sono soltanto in qualche aspetto della loro vita “dans certaines domaines de la vie familiale” (p. 58)
La sua tesi di fondo può essere riassunta come segue: la psicologia e la pedagogia, con tutta l’attenzione posta all’interiorità del bambino, hanno sicuramente dato un grande contributo alla presa di coscienza rispetto ai diritti del bambino in quanto persona, al suo benessere psicofisico, all’importanza della dimensione dell’amore nella relazione adulto-bambino. Però l’ha resa una cosa troppo tecnica, derubando il genitore della propria naturale competenza, della sicurezza nel proprio istinto genitoriale.
Troppo preoccupato a non creare traumi, il genitore non sa più educare, generando un vuoto nella relazione con il figlio, che, davanti a questa tabula rasa, approfitta per accrescere il proprio ego senza incontrare ostacoli e limitazioni di alcun genere. E diventa tirannico.
Il bambino tiranno non vive felice del proprio stato, è costantemente insoddisfatto, totalmente dipendente dalle soddisfazioni immediate che ricerca continuamente, utilizzando senza scrupoli gli altri componenti della famiglia per il proprio soddisfacimento. È invece necessario che il bambino da subito, dai primissimi mesi di vita, impari a conoscere e gestire la frustrazione, il non-soddisfacimento immediato, ed è compito del genitore offrire questa disciplina che contrasta l’istintivo carattere tirannico.
Didier Pleux specifica che l’”enfant tyran” non è semplicemente un bambino viziato, ma è una condizione specifica e ben riconoscibile che si manifesta prestissimo nella vita del bimbo. Non è chiaro però se sia innata o risultato della mancanza di educazione, se sia una condizione potenziale di tutti i bambini o soltanto di alcuni. Quello che è chiaro è che egli la tratta come una vera e propria patologia, arrivando a paragoni e considerazioni di dubbio gusto, come nel confronto tra “enfant tyran” e “handicapé”: “nous n’aurions pas l’idée de demander à un enfant paralytique de marcher et nous exigeons que l’enfant tyran abdique sur un mot!” (p.68).
Proverò a fare due ordini di considerazioni al testo di Didier Pleux, osserverò alcune questioni di metodo e tenterò alcune riflessioni teologiche.
Non si tratta soltanto del classico manuale sull’educazione. Sebbene la parte “manualistica”, ivi inclusi i test di verifica della propria situazione familiare, della tirannia in potenza o in atto del proprio figlio, sia molto ampia e sviluppata, la terza parte del libro, i capitoli 8, 9, 10 sono dedicati all’approccio teoretico alla questione. In queste pagine, che pur non dimenticano di rimanere al livello della divulgazione, vengono esposte le basi teoriche del lavoro di Didier Pleux, ma la parte analitica più ampia è dedicata alla critica del lavoro di Françoise Dolto.
Non è certo qui il luogo per avanzare delle critiche alle teorie dell’autore a partire da teorie diverse e opposte. E se un povero studioso riesce a trovare la chiave giusta per fare successo nello spietato mondo dell’editoria, bisogna riconoscergli merito. Le posizioni educative sono tante e diverse , però è significativo osservare il suo modo di interagire con le teorie “avversarie”.
Pleux, con grande generosità, concede alle scienza pedagogiche, il merito di essere state utili per un approccio efficace alle situazioni patologiche, ma, per quel che riguarda l’educazione normale, hanno creato molti danni. Hanno diffuso il pregiudizio che le imposizioni, la disciplina e le frustrazioni siano le cause dell’insorgere di comportamenti disturbati e patologici, che le psicopatologie in età adulta abbiano invariabilmente la propria origine nelle violenze subite da bambini. Questo pregiudizio ha generato una costante preoccupazione nelle nuove generazioni di genitori i quali, per paura di procurare ferite allevano il bambino in un ambiente senza disciplina, iperprotetto e costantemente soddisfatto. Che però è, a suo dire, l’assenza dell’educazione, l’habitat ideale perché l’io del bimbo cresca nel “délire de toutepuissance” (p. 96) generando comportamenti tirannici. Poche citazioni da un testo di Alice Miller, a parte la Dolto e qualche seguace della sua scuola, ma sempre decontestualizzate, e usate per metterne in risalto l’estremismo libertario. Riassunte in modo grossolano e ridicolizzate.
È poi vero, come lamenta l’autore, che in questi difensori dell’infanzia si ritroverebbe un rapporto immediato e inevitabile tra educazione repressiva e insorgenza di patologie e nevrosi nel bambino e nel giovane? Sta tutto qui il messaggio di queste pedagogie? Mette le mani avanti, lo psicologo, sapendo di poter essere accusato, in quanto comportamentista, di una lettura troppo rigida di queste altre pedagogie (p.225). E ha ragione. Sembra infatti che egli non abbia alcun sospetto della questione fondamentale posta da gente come Maria Montessori, Janusz Korczak, Wilhelm Reich, Margareth Mead, Françoise Dolto. Al di là delle differenti teorie, al di là delle possibili patologie generate da un educazione repressiva, questi autori hanno osato proporre una visione diversa di cosa sia il bambino in quanto persona. Hanno messo in discussione il presupposto tradizionale che il bambino sia un mezzo-essere, che il suo essere completo sarà pienamente raggiunto con l’età adulta e l’educazione.
E dunque un’educazione, quali che siano i suoi metodi, deve rispettare il bambino in quanto tale, non usarlo come un fine in vista della formazione del futuro adulto. Ecco, questa parte sembra essere completamente assente dalla prospettiva speculativa di Didier Pleux. Anzi, sembra proprio non averne neanche il sospetto, visto che, nelle lunghe pagine che dedica all’approccio teorico del suo lavoro, non se ne trova traccia, neanche in senso critico. La sua visione del bambino è ferma a Jean-Jacques Rousseau, alle cui citazioni ricorre costantemente per tutto il libro.
Provando a gettare uno sguardo teologico sul testo in questione sorgono due interrogativi, legati all’atmosfera di guerriglia costante che si respira in tutto il libro. A partire dalle parole di Gesù che dice di lasciare che i bambini vadano a Lui, che ci incita a diventare come loro per aver accesso al regno dei cieli, dalle parole di Paolo che dice che l’amore crede ogni cosa, è possibile per un genitore cristiano educare un figlio attraverso il metodo della guerriglia? È possibile diffidare costantemente del suo istinto di bambino? Quale che sia il metodo educativo, repressivo o libertario, può mai un’educazione cristiana essere qualcosa di diverso da un gesto di amore e di fiducia?
Non si può fare a meno di notare un diffuso bisogno, oggi, di autoritarismo in ambito pedagogico. Negli ultimi anni l’editoria di settore registra una quantità di titoli significativi in questa direzione. Una tesi di fondo comune è la seguente. Lo sbandamento libertario del ’68 ha creato una generazione di genitori insicuri e deboli, incapaci di imporre la propria presenza normativa ai bambini che così crescono senza parametri etici di riferimento. Senza tornare al classico “ceffone”, c’è però bisogno di recuperare una sana disciplina. Sembra proprio un discorso sensato. Attraente, soprattutto per chi, come un cristiano, creda ancora in un’etica e in cose come i “valori”. In realtà è la tentazione di quelli che Francis Schaeffer definiva “cristiani nostalgici”. Quei cristiani che identificano la volontà di Dio con l’etica “perbene”, che non hanno saputo riconoscere nel discorso cristiano, per dirla con parole di Bonhoeffer, la fine di ogni etica umana. Educazione cristiana e buona educazione borghese non coincidono.
Pur non volendo mettere qui in questione l’ideologia reazionaria che sottende al discorso di Didier Pleux e al suo “enfant tyran”, rimane un’impressione che è ben riassunta da un anomimo recensore sul web, di questo testo: un “livre triste et allarmiste”.

Nessun commento:

Posta un commento