Didier Pleux, De l’enfant roi à l’enfant tyran, La Flèche,
Odile Jacob, 2014, pp. 287, € 8,90
Recensione di Daniele Mangiola
Didier Pleux è uno psicologo clinico, direttore
dell’Institut français de thérapie cognitive. Autore di numerosi saggi. Un
esperto che si occupa nella propria quotidiana pratica clinica appunto di
aiutare famiglie sottomesse da bambini tirannici. Aiutarle a ritrovare una
normalità familiare, aiutarle a ridefinire i propri equilibri interni
attraverso una riappropriazione dell’autorità parentale.
La cosa che colpisce del libro di Didier Pleux è l’atmosfera
che si respira. C’è una battaglia in corso, tra mondo dell’infanzia e mondo
degli adulti. Il bambino è apparentemente un essere fragile, innocuo, debole,
ma si tratta di un’immagine ingannevole, creata ad arte dal bambino stesso e
con l’obiettivo specifico di sconfiggere le resistenze dell’adulto.
A seconda dei casi si fa passare per vittima o al contrario
mette paura agli adulti, inganna i genitori oppure li seduce. E tutto questo in
modo cosciente, facendo leva sull’apparenza di vulnerabilità del suo infantile aspetto
sotto il quale si cela invece un fine e spietato stratega. Un bambino che sa
utilizzare molto bene la dialettica dando l’impressione di intelligenza
precoce, ma, rivela Pleux, è solo un’impressione che inevitabilmente si
ridimensiona ad un veloce test psico-attitudinale: si tratta di bambini
normodotati, per nulla eccezionali.
Clinico stimato e scrittore di successo, grazie anche questa
originale formula dell’”enfant tyran”. I suoi libri si vendono e si ristampano,
in Francia e all’estero, come in Italia, dove il testo qui presentato è edito
col titolo “In famiglia comando io”. Fare lo scrittore è un mestiere ingrato di
questi tempi. Tenersi stretti i lettori, crearsi un seguito di fedeli, è una
cosa faticosa, che implica un certo savoir faire. Gli slogan, le terminologie
ad effetto, le tecniche pubblicitarie, sono fondamentali. Così, visto che
l’espressione “enfant tyran” funziona, la devi far girare il più possibile, e
dunque non ci sono soltanto i bambini tutti tiranni, ma anche quelli parzialmente
tiranni, quelli che lo sono soltanto in qualche aspetto della loro vita “dans
certaines domaines de la vie familiale” (p. 58)
La sua tesi di fondo può essere riassunta come segue: la
psicologia e la pedagogia, con tutta l’attenzione posta all’interiorità del
bambino, hanno sicuramente dato un grande contributo alla presa di coscienza
rispetto ai diritti del bambino in quanto persona, al suo benessere
psicofisico, all’importanza della dimensione dell’amore nella relazione
adulto-bambino. Però l’ha resa una cosa troppo tecnica, derubando il genitore
della propria naturale competenza, della sicurezza nel proprio istinto genitoriale.
Troppo preoccupato a non creare traumi, il genitore non sa
più educare, generando un vuoto nella relazione con il figlio, che, davanti a
questa tabula rasa, approfitta per accrescere il proprio ego senza incontrare
ostacoli e limitazioni di alcun genere. E diventa tirannico.
Il bambino tiranno non vive felice del proprio stato, è
costantemente insoddisfatto, totalmente dipendente dalle soddisfazioni
immediate che ricerca continuamente, utilizzando senza scrupoli gli altri
componenti della famiglia per il proprio soddisfacimento. È invece necessario
che il bambino da subito, dai primissimi mesi di vita, impari a conoscere e
gestire la frustrazione, il non-soddisfacimento immediato, ed è compito del
genitore offrire questa disciplina che contrasta l’istintivo carattere
tirannico.
Didier Pleux specifica che l’”enfant tyran” non è
semplicemente un bambino viziato, ma è una condizione specifica e ben
riconoscibile che si manifesta prestissimo nella vita del bimbo. Non è chiaro
però se sia innata o risultato della mancanza di educazione, se sia una
condizione potenziale di tutti i bambini o soltanto di alcuni. Quello che è
chiaro è che egli la tratta come una vera e propria patologia, arrivando a
paragoni e considerazioni di dubbio gusto, come nel confronto tra “enfant
tyran” e “handicapé”: “nous n’aurions pas l’idée de demander à un enfant
paralytique de marcher et nous exigeons que l’enfant tyran abdique sur un mot!”
(p.68).
Proverò a fare due ordini di considerazioni al testo di
Didier Pleux, osserverò alcune questioni di metodo e tenterò alcune riflessioni
teologiche.
Non si tratta soltanto del classico manuale sull’educazione.
Sebbene la parte “manualistica”, ivi inclusi i test di verifica della propria
situazione familiare, della tirannia in potenza o in atto del proprio figlio,
sia molto ampia e sviluppata, la terza parte del libro, i capitoli 8, 9, 10
sono dedicati all’approccio teoretico alla questione. In queste pagine, che pur
non dimenticano di rimanere al livello della divulgazione, vengono esposte le
basi teoriche del lavoro di Didier Pleux, ma la parte analitica più ampia è
dedicata alla critica del lavoro di Françoise Dolto.
Non è certo qui il luogo per avanzare delle critiche alle
teorie dell’autore a partire da teorie diverse e opposte. E se un povero
studioso riesce a trovare la chiave giusta per fare successo nello spietato
mondo dell’editoria, bisogna riconoscergli merito. Le posizioni educative sono
tante e diverse , però è significativo osservare il suo modo di interagire con
le teorie “avversarie”.
Pleux, con grande generosità, concede alle scienza
pedagogiche, il merito di essere state utili per un approccio efficace alle
situazioni patologiche, ma, per quel che riguarda l’educazione normale, hanno
creato molti danni. Hanno diffuso il pregiudizio che le imposizioni, la
disciplina e le frustrazioni siano le cause dell’insorgere di comportamenti
disturbati e patologici, che le psicopatologie in età adulta abbiano
invariabilmente la propria origine nelle violenze subite da bambini. Questo
pregiudizio ha generato una costante preoccupazione nelle nuove generazioni di
genitori i quali, per paura di procurare ferite allevano il bambino in un
ambiente senza disciplina, iperprotetto e costantemente soddisfatto. Che però
è, a suo dire, l’assenza dell’educazione, l’habitat ideale perché l’io del
bimbo cresca nel “délire de toutepuissance” (p. 96) generando comportamenti
tirannici. Poche citazioni da un testo di Alice Miller, a parte la Dolto e
qualche seguace della sua scuola, ma sempre decontestualizzate, e usate per
metterne in risalto l’estremismo libertario. Riassunte in modo grossolano e
ridicolizzate.
È poi vero, come lamenta l’autore, che in questi difensori
dell’infanzia si ritroverebbe un rapporto immediato e inevitabile tra
educazione repressiva e insorgenza di patologie e nevrosi nel bambino e nel
giovane? Sta tutto qui il messaggio di queste pedagogie? Mette le mani avanti,
lo psicologo, sapendo di poter essere accusato, in quanto comportamentista, di
una lettura troppo rigida di queste altre pedagogie (p.225). E ha ragione. Sembra
infatti che egli non abbia alcun sospetto della questione fondamentale posta da
gente come Maria Montessori, Janusz Korczak, Wilhelm Reich, Margareth Mead,
Françoise Dolto. Al di là delle differenti teorie, al di là delle possibili
patologie generate da un educazione repressiva, questi autori hanno osato
proporre una visione diversa di cosa sia il bambino in quanto persona. Hanno
messo in discussione il presupposto tradizionale che il bambino sia un
mezzo-essere, che il suo essere completo sarà pienamente raggiunto con l’età
adulta e l’educazione.
E dunque un’educazione, quali che siano i suoi metodi, deve
rispettare il bambino in quanto tale, non usarlo come un fine in vista della
formazione del futuro adulto. Ecco, questa parte sembra essere completamente
assente dalla prospettiva speculativa di Didier Pleux. Anzi, sembra proprio non
averne neanche il sospetto, visto che, nelle lunghe pagine che dedica
all’approccio teorico del suo lavoro, non se ne trova traccia, neanche in senso
critico. La sua visione del bambino è ferma a Jean-Jacques Rousseau, alle cui
citazioni ricorre costantemente per tutto il libro.
Provando a gettare uno sguardo teologico sul testo in
questione sorgono due interrogativi, legati all’atmosfera di guerriglia
costante che si respira in tutto il libro. A partire dalle parole di Gesù che
dice di lasciare che i bambini vadano a Lui, che ci incita a diventare come
loro per aver accesso al regno dei cieli, dalle parole di Paolo che dice che
l’amore crede ogni cosa, è possibile per un genitore cristiano educare un
figlio attraverso il metodo della guerriglia? È possibile diffidare
costantemente del suo istinto di bambino? Quale che sia il metodo educativo,
repressivo o libertario, può mai un’educazione cristiana essere qualcosa di
diverso da un gesto di amore e di fiducia?
Non si può fare a meno di notare un diffuso bisogno, oggi,
di autoritarismo in ambito pedagogico. Negli ultimi anni l’editoria di settore
registra una quantità di titoli significativi in questa direzione. Una tesi di
fondo comune è la seguente. Lo sbandamento libertario del ’68 ha creato una
generazione di genitori insicuri e deboli, incapaci di imporre la propria
presenza normativa ai bambini che così crescono senza parametri etici di
riferimento. Senza tornare al classico “ceffone”, c’è però bisogno di
recuperare una sana disciplina. Sembra proprio un discorso sensato. Attraente,
soprattutto per chi, come un cristiano, creda ancora in un’etica e in cose come
i “valori”. In realtà è la tentazione di quelli che Francis Schaeffer definiva
“cristiani nostalgici”. Quei cristiani che identificano la volontà di Dio con
l’etica “perbene”, che non hanno saputo riconoscere nel discorso cristiano, per
dirla con parole di Bonhoeffer, la fine di ogni etica umana. Educazione
cristiana e buona educazione borghese non coincidono.
Pur non volendo mettere qui in questione l’ideologia
reazionaria che sottende al discorso di Didier Pleux e al suo “enfant tyran”,
rimane un’impressione che è ben riassunta da un anomimo recensore sul web, di
questo testo: un “livre triste et allarmiste”.
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