A. Oz, F. Oz-Salzberger, Gli
ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica, Feltrinelli, Milano,
2013, pp. 237, € 20,00.
“ll popolo d’Israele, in tutte le generazioni che precedono
il XIX secolo, si è chiamato semplicemente così, “popolo d’Israele”, bne Israel o am Israel. Il loro impegno morale si chiamava Torah e mitzwot (precetti), non yahadut” (p.161). Il termine “Ebraismo”
(ma più precisamente “giudaismo”, yahadut)
non riguarda la storia del “popolo d’Israele”, se non parzialmente e solo da
poco più di un secolo, come fanno notare Amos Oz, scrittore e sua figlia Fania
Os-Salzberger, storica, nel libro scritto a quattro mani, Gli ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica, edito da
Feltrinelli nella collana Campi del
sapere. Cos’è, infatti “ebraismo”? La prima risposta sarebbe il corpus
giuridico-religioso deducibile dalla parte di Bibbia in Occidente chiamata
Antico Testamento da cui non si potrebbe disgiungere il Talmud, insieme dei
commenti rabbinici composti nel corso dei secoli dai Rabbi, maestri della fede
d’Israele. La risposta sarebbe corretta, anche perché è proprio con questa
intenzione che si ufficializza questo “neologismo”, yahadut, per affiancarsi agli altri due “ismi” di “Cristianesimo”
ed “Islamismo”.
Ma non tutti gli ebrei sono osservanti della Torah, lo sono
anzi, oggi, una abbastanza piccola parte. E tutto il movimento politico, laico,
antireligioso anche, che ha portato alla formazione dello stato d’Israele, il
sionismo? Non ha nulla a che vedere con l’”ebraismo”? Potrebbe forse essere la
terra l’elemento identificativo? Gerusalemme? Quella terra contesa a forza di
sangue e bombe tra due realtà etniche (?) animate da lunga rivalità? E se così
fosse, che ne sarebbe di tutti quegli ebrei (giudei, yehudi) disseminati da sempre in ogni parte del globo? Di tutti
quelli che non hanno inteso “rientrare dalla cattività”? di tutti quelli che in
“Babilonia” hanno messo radici che non hanno avuto il coraggio o la voglia di
recidere?
Distrutto lo stato, dispersa la gente, per ogni dove in fuga
e prigioniera, duemila anni fa, del “popolo d’Israele” non è rimasto altro che
cenere. Condannati a vivere in terra straniera, parlare una lingua straniera,
miscelarsi, nascondersi tra gente straniera, cosa ha preservato questo popolo
dall’oblìo? Quale imperscrutabile, imprevedibile miracolo storico può aver
permesso ad una cultura atomizzata e delegittimata di preservarsi per venti
secoli per poi, contro ogni previsione, risorgere proprio dopo la notte più
buia della sua tragica storia, la Shoah?
Il miracolo laico (per nulla religioso, come ribadiscono a
più riprese i due autori) consiste nel particolare rapporto che gli ebrei di
ogni tempo hanno sempre avuto con la parola, con le parole. È questo il prisma
attraverso cui guardano alla storia di Israele nelle pagine di questa
interessante opera. “La continuità ebraica si fonda da sempre su parole dette e
scritte, su un labirinto di interpretazioni, dibattiti e dissensi in continua
espansione… è una linea non di sangue, ma di testo” (p. 11). La riflessione
teologica sulla dimensione della parola non è certo nuova nella letteratura
ebraica contemporanea. Parola, lingua, testo, chiamata e risposta, silenzio
sono dimensioni concettuali attraverso le quali si è esplorato il particolare
modo della rivelazione divina per il tramite della Bibbia ma anche attraverso
il popolo di Israele, per lo stesso popolo e per il mondo intero, per la
comunità umana e per il singolo individuo. Questa volta, prendendo le distanze
da ogni dimensione teologica, i due autori si limitano a rintracciare la
particolare relazione tra popolo e parole nella cultura ebraica attraverso la
storia.
È chiaro e inevitabile che all’origine ci sia la rivelazione
divina, quella berit tra Dio e un
particolare popolo. Principalmente l’ingiunzione dello Shema (Deut 6,7) di tramandare ai figli “queste parole”. Fedeli a
questo dettato, attraverso le epoche, le varie generazioni di ebrei di ogni
luogo hanno mantenuto l’impegno a tener viva la propria identità culturale
attraverso la trasmissione di essa alle generazioni successive. È certo un
tratto comune ad ogni civiltà questo, ma nessun popolo si è preso carico di
questa responsabilità con tanta determinazione e, soprattutto, in modo così
capillare. Ogni figlio ebreo, appena svezzato, a partire dai tre anni, era
iniziato alla conoscenza del testo sacro in un corso di studi obbligatorio per
dieci anni. “A scuola, che il più delle volte era costituita da una povera stanzetta,
un unico insegnante, una pluriclasse, i bambini studiavano ebraico – che non
era la loro lingua madre e non era nemmeno una lingua viva, neanche in epoca
talmudica – tanto da poter leggere e scrivere” (p. 17).
Non era utile, non serviva certo a governare meglio le
pecore, non era neanche facile, spesso addirittura da fare clandestinamente, ma
il detto della Torah “non ammette né giustifica la scelta di allevare un figlio
maschio ignaro del testo sacro” (p. 25). E non finiva qui l’impegno alla trasmissione
di “queste parole”, ché continuava tra le mura domestiche, attraverso le varie
ricordanze e benedizioni rituali a cui la famiglia intera partecipava
attivamente, dal più piccolo al più grande (ed anche al più irriverente) avendo
la propria parte da mandare a memoria e recitare.
E se lo studio era obbligatorio soltanto per i maschi, la
continuità di trasmissione della memoria entro le mura domestiche dava accesso
a quella stessa conoscenza anche alle donne di casa, in un modo o nell’altro.
Così che non c’è traccia di comunità ebraiche analfabete in epoca antica o
medievale e anche nelle epoche più buie, agli albori del secondo millennio, ci
sono tracce di donne ebree dotate di solida e illuminata erudizione.
“Le cronache ebraiche contraddicono il luogo comune secondo
cui la storia la scrivono i vincitori. Anche quando perdono, e perdono
tremendamente, gli israeliti prima e gli ebrei dopo si danno gran pena di
raccontarsi la storia. E raccontano ai propri figli tutte le brutte cose
successe… tutto fuorché una storia facile da raccontare ai propri figli. Conta
più vittime che eroi e, negli ultimi duemila anni, nessun re e neanche un
castello” (pp. 139-40). Non si raccontava la “storia ebraica” a quei bambini,
come potremmo intenderla noi oggi, era qualcos’altro che veniva tramandato, era
la coscienza di un particolare rapporto tra la presenza divina e l’iniziativa
umana. Qualcosa che stimolava ad interrogare ed interrogarsi, a porsi di fronte
a Dio e al proprio destino in maniera creativa.
Ma cosa ha legato con tanta forza un numero innumerabile di
individui alla propria storia, alle parole dei padri, in mezzo a mille avversi
destini? Bella l’immagine dell’antica usanza di accompagnare l’apprendimento di
una nuova lettera dell’alfabeto con una caramella, quasi a suggerire che dolci
sono le parole. Un ininterrotto legame tiene insieme padri e figli, maestri e
allievi in questa continuità di testo più che di sangue. Così il padre ha la
responsabilità dell’istruzione del figlio e allo stesso modo mille e mille volte
il rapporto maestro-allievo è descritto dall’immagine padre-figlio. Allo stesso
modo un ininterrotto legame tiene insieme cibo e parole, nutrimento e racconto.
E’ grazie a questa fedeltà che l’ebraico, da secoli lingua
morta e sepolta (nelle buie soffitte dove di nascosto veniva tramandata da una
generazione all’altra) rinasce all’alba del XX secolo per ritornare viva e,
soprattutto, capace di raccontare il proprio tempo.
Attraverso i quattro capitoli, “Continuità”, “Donne vocali”,
“Tempo e atemporalità” e “Ogni persona ha un nome” si compie il suggestivo
viaggio attraverso le epoche e i luoghi attraverso i quali la cultura ebraica
si è sviluppata preservandosi ma allo stesso tempo nutrendosi nelle culture
ospiti. Ma non si è soltanto nutrita di quelle culture, le ha influenzate, come
testimoniano artisti, letterati, scienziati, filosofi di ogni tempo e luogo con
l’unico tratto in comune un particolare nome che sotto storpiature varie celava
l’origine in quel popolo d’Israele.
Pure se il punto di vista è laico, tutto il testo è carico
di riferimenti biblici, profetismo, miracolo, dialoghi schietti, puntugliosi,
meravigliosamente vivi, irriverenti, spesso, come è tipico della spiritualità
ebraica, tra Dio e l’uomo, di quella familiarità con il Dio di Abramo che non
può che affascinare e rapire il lettore cristiano. Ed è proprio di chi è
familiare il domandare schietto, aperto, ardito fino al limite dell’irriverenza
come ci mostrano a volte patriarchi e profeti, ma è il domandare di chi vuol
sapere, conoscere, appropriarsi di ciò che ascolta.
“Di tutte, la domanda più promettente è quella che interroga
sul passaggio del testimone da una generazione all’altra. ‘Se tuo figlio domani
ti chiederà: che cosa sono le testimonianze, le leggi e gli statuti che il
Signore nostro Dio vi ordinò?’ (Deuteronomio 6,20). Questa è la chiave, la
pietra filosofale dell’ebraismo. È il modulo pedagogico della memoria, che
risale alla culla nazionale, cioè il libro dell’Esodo. Per favore, figlio mio,
domandami” (p.44)
(Daniele Mangiola - DiRS GBU)
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