M. Recalcati,
Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del
padre, Feltrinelli, Milano, 2014, pp. 153, € 8,00
Recensione: Daniele Mangiola
Nessuno può mai dire che tipo di
genitore sarà finché non si trovi con un figlio tra le braccia. E
il fatto stesso che possano esserci differenti tipi di genitore è un
problema tipico del nostro tempo. Non abbiamo più quell’unica
visione premoderna della vita e della famiglia in cui si trova un
unico modello genitoriale, la madre, colei che offre le cure, la
protezione, l’abbraccio, la casa, il padre, colui che instrada alla
vita, apre la porta e indica il mondo là fuori, il cammino che porta
lontano da casa. La modernità ha messo però talmente in crisi il
principio di autorità al punto che la figura che la incarnava, il
padre, si è “evaporato”, per usare una terminologia derivata da
Jacques Lacan.
Come restare padri nel tempo
dell’evaporazione del padre era stato un problema affrontato in una
pubblicazione di un paio di anni fa da Massimo Recalcati,
psicoanalista di dichiarata fede lacaniana. Sulla stessa strada
continua il suo successivo Il complesso di Telemaco. Genitori e
figli dopo il tramonto del padre. Recalcati è uno di quegli
autori che piacciono tanto all’editoria italiana, capace di
conquistare il lettore medio (una edizione in “Serie Bianca” e
due in “Universale Economica” per Feltrinelli, del presente
libro) pur mantenendo il rigore dello studioso. Una scrittura carica
di forza evocativa (che dire di “Siamo tutti Telemaco. Abbiamo
tutti almeno una volta guardato il mare aspettando che qualcosa da lì
tornasse”? p.14) e una concettualità fluida e ricercata.
E’ che per reazione
all’evaporazione della propria autorità, a quanto pare gli adulti
hanno abdicato alla propria responsabilità di educatori, così che
“non prevale tanto il genitore-educatore ma il suo rovescio
speculare: la figura del genitore-figlio” (p.59). Sono evaporati
anche gli adulti, insieme all’autorità che incarnavano, fissati in
una eterna adolescenza, coetanei dei propri figli. Per evitare alla
discendenza la traumatica esperienza dello scontro con la parola
della Legge, i genitori hanno inscenato una pantomima del costante
godimento ad uso e consumo della prole. L’esperienza individuale e
familiare assurge a paradigma sociale ed esistenziale e dunque noi
tutti, figli di questo Occidente, siamo costantemente cullati dal
miraggio di un godimento ininterrotto, sommersi di oggetti e così
storditi da un benessere senza freni, senza Legge Altra, né Dio che
si opponga, il godimento diventa solo dio e legge.
Una spensieratezza triste, però,
segnata da un bisogno compulsivo del godimento, un dio tirannico
perché mai sazio, in una grande giostra di oggetti seducenti tutti
uguali e dalla vita breve, sfiancati dall’inseguire il capriccio
dei figli ai quali nessuna responsabilità è stata insegnata.
“Restituire valore al carattere simbolico della Legge implicherebbe
per i genitori saper rinunciare alle aspettative narcisistiche sui
loro figli” (p.64), ma l’adulto ha subìto un processo di
“adulterazione” (p.68) che lo ha portato alla rinuncia delle
proprie responsabilità.
E se essere genitori è diventato
tanto problematico, l’essere figli non è oggi affatto uno scherzo.
La psicoanalisi ha insegnato come è nello sguardo della madre e del
padre che il figlio trova l’immagine di sé, si riconosce. Nella
figura di Edipo la sapienza psicoanalitica ha rintracciato il
paradigma del figlio che individua nel padre il limite da
oltrepassare per affermare se stesso. Ma che ne è di Edipo in un
tempo in cui del padre non ne è più nulla? È passato il tempo del
figlio-Edipo (p.98segg), dice Recalcati, ed è passato anche il tempo
del figlio-antiEdipo (p.102segg), che evita il conflitto col
padre-Legge semplicemente perché non ne riconosce più la paternità;
è venuto dopo il tempo del figlio-Narciso (p.107segg), in cui
“l’idolo-bambino impone alla famiglia di modellarsi attorno alla
legge arbitraria del suo capriccio”: non ha avuto alcun padre che
lo ponesse di fronte al limite, alla parola di una Legge Altra, altra
dall’imperativo del suo proprio godimento.
Di nuovo c’è che dai figli si
eleva ora una domanda di Legge, una domanda di limite, il bisogno di
por fine a questo circo del godimento senza freno, “invocano il
padre non come ostacolo – come accade per Edipo – ma come
possibilità di riportare la Legge della parola nella propria casa”
(p.116). Questo è il tempo del figlio-Telemaco (p.111segg), che vive
l’assenza del padre come attesa del suo ritorno. Mentre i Proci
assediano la sua casa, Telemaco guarda al mare aspettando che Ulisse
torni. Ma non si limita ad un atteggiamento nostalgico, anzi agisce,
parte alla ricerca del padre. Oggi, in un mondo senza autorità,
senza Legge, senza limite, questi figli chiedono soltanto che
qualcuno faccia da padre.
Altro tema caro a Recalcati è
quello dell’eredità trattato questa volta dal punto di vista del
figlio, dell’erede. Ereditare è accettare il debito simbolico nei
confronti del padre, quale che esso sia; ci sono due modi di fallire
il gesto dell’erede: l’uno è quello dell’identificarsi
passivamente con il lascito paterno, nella mera ripetizione di ciò
che è stato (p.124), l’altro è quello di rifiutare il debito
simbolico, nel non riconoscere il padre (p.130). Per diventare erede
bisogna prima di tutto diventare orfano, perdere il padre,
confrontarsi con il lutto. Non accettare la perdita del padre, in
psicoanalisi, è restare bloccati nel figlio che non sa camminare con
i propri piedi, non sa prendere la propria strada, farsi carico e
amministratore dell’eredità. All’altro opposto si può diventare
orfani per aver eliminato il padre, per averlo ucciso, facendosi
padri di se stessi, rifiutando di essere orfani. Il “giusto erede”
(p.121) è il figlio che si fa figlio, che adotta il padre anche se
sa rinunciare ad esso, elaborarne il lutto, “la rinuncia al padre
diventa cosa ben diversa dal rifiuto del padre” (p.94).
Tutto il discorso di Recalcati si
muove in continuazione tra i piani diversi dell’esperienza
individuale-relazionale, sociologico-politica e
esistenziale-religiosa. Frequenti richiami alla situazione attuale
italiana, al fallimento della classe politica ridotta a banda di
eterni adolescenti determinati dall’unica legge del godimento,
incapaci del gesto responsabilmente adulto di essere guide, testimoni
di un Desiderio che incontra la Legge della parola, la parola della
Legge. Costante il rimando alla tematica del divino, sono la prima e
l’ultima parola del libro. “C’è stato un tempo in cui pregare
era come respirare, in cui pregare era un evento della natura”
(p.19) è l’incipit, per poi terminare nell’identificazione
Gesù-Telemaco (p.117 e 145).
Massimo Recalcati, pur dichiarandosi
nettamente laico, distante dall’esperienza religiosa, è un autore
caro al mondo cattolico: spesso invitato in conferenze e dibattiti
sulla famiglia, la tematica della paternità, la crisi sociale
contemporanea, frequentemente citato. Piace questo suo appello alla
necessità del ritorno del Padre, della sua testimonianza come
eredità da trasmettere, questo rimando speranzoso ad un recupero dal
Padre, dal basso, per così dire, per iniziativa dei figli che ne
richiedono e ne attendono il ritorno. E’ quel tipo di
rassicurazione che piace tanto in ambito cattolico.
Tornando al testo, uno dei richiami
frequenti è, ovviamente il Nietzsche di “Dio è morto”. E’
morto quel Pater altissimo, irraggiungibile, severo e monolitico, ed
è una buona cosa, certo, solo che senza padre l’uomo si è
smarrito nelle tragiche derive totalitarie di cui il Novecento è
stato testimone, in cui quel vecchio dio è stato rimpiazzato da una
divinizzazione della parola umana diventata ideologia. Sono poi
finite le ideologie, sono morti quei padri folli e sfrenati e oggi
c’è dovunque un grande bisogno del ritorno del Padre. Con un volto
nuovo, ingentilito, certo, ma la speranza è che torni a riportare la
Legge nella nostra casa.
“L’uomo è all’altezza del
compito che gli impone la propria libertà?” (p.44). Il delirio
delle ideologie e dei totalitarismi ha dimostrato che essere liberi
non è facile, che ad essere senza padre si finisce per farsi padri
di se stessi. L’autore arriva (p.48) a dare di Nietzsche un
ritratto “moralistico” come di colui che si interroga sul come
abitare una libertà senza padre, sul come essere uomo senza idoli
metafisici, colui che avverte che la libertà assoluta è pericolosa.
C’è qui a mio avviso uno scivolamento sottile, ma sostanziale su
quanto di Nietzsche è stato detto da Heidegger: Nietzsche è ancora
entro il mondo dominato dal fantasma di Dio, non ha affatto elaborato
il lutto, ha ancora le mani sporche del sangue del Padre, è l’ultimo
grande discorso metafisico, non si pone affatto fuori dalla vecchia
entificazione del dio della morale. Questo significa che i
totalitarismi tragici del Novecento non sono la dimostrazione che
l’uomo non sappia essere libero, non sono gli effetti della
morte di Dio. Sono la dimostrazione della morte di Dio. Non è
che “Dio è morto”, è che “noi lo abbiamo ucciso”. Dio era
diventato così tanto una Cosa che alla fine lo abbiamo eliminato. I
totalitarismi sono stati l’uccisione di Dio per fare posto ad un
altro dio umano. La “morte di Dio”, dice però Bonhoeffer, è
stata una cosa buona, quello era soltanto un Dio tappabuchi destinato
a retrocedere ad ogni passo in avanti dell’umanità. Nessun
rimpianto, nessuna nostalgia. Quel Dio era un altro idolo umano un
ricettacolo di immagini antropomorfe, di pulsioni frustrate e poi
sublimate.
Suonano rassicuranti, in termini di
etica della famiglia, le affermazioni di Recalcati, sul fatto che,
anche se la Legge non si identifica con il Padre, è però soltanto
nel Padre che il figlio lo può trovare, sul fatto che anche se il
padre è assente, non è la sua assenza “a essere traumatica in se
stessa; dipende da come essa viene trasmessa simbolicamente dalla
parola della madre” (p.113); sembra qui riprodotto il quadretto
tradizionale della famiglia, con un padre magari assente per
procurare il pane necessario alla famiglia, come accadeva nella
pubblicità di una certa pasta. Un padre, inoltre, che non dispone
della propria immagine, la quale è amministrata presso il figlio
dalle parole della madre (quale madre? La Madre Chiesa?).
Fortemente evocativa, infine,
l’immagine di Telemaco che non si rassegna alla perdita del padre,
ma lo attende, anzi, fa di più, parte alla sua ricerca, corre in suo
incontro per riportarlo al suo posto. Dopo le tragedie del Novecento,
Dio Padre è talmente debilitato da aver bisogno di essere salvato
dall’uomo. Come nelle parole di Etty Hillesum, ebrea cattolica,
vittima della Shoah. Pure Massimo Recalcati è ebreo e questa
tematica dell’uomo che difende Dio è presente anche in tanta
sapienza talmudica tradizionale. Ma, sempre in ambito ebraico, Martin
Buber distingueva invece nettamente la teocrazia dalla ierocrazia,
dal luogo in cui, cioè, la parola divina è soggetta ad
amministratori umani. Le due o tre volte in cui nel libro la parola
“anarchia” è presente, è solo e nettamente nella sua accezione
negativa, popolare. Ogni ribellione alla legge è sempre patologica,
espressione di una nevrosi, la legge è sempre giusta o perlomeno,
sempre rettificabile dall’interno, il suo rifiuto espone sempre
alla perdita di sé.
A conti fatti il discorso di Massimo
Recalcati è avvincente, importante, su una tematica di scottante
attualità, condotto con perizia, e sempre intenso, grazie anche al
suo talento di scrittore, resta però da vedere se davvero Dio della
Bibbia intenda essere quel Padre del conflitto, che deve frustrare la
istintiva pulsione al godimento per far incontrare Desiderio e Legge,
se questi adolescenti alla ricerca di un padre forte, anche se
gentile, che finalmente sappia riportare nella loro casa la legge,
siano poi davvero dei “giusti eredi”, se non siano soltanto dei
figli ancora feriti, senza altra prospettiva che il desiderio
nostalgico del ritorno di un tempo che non può più tornare.
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