Grossman D., Applausi
a scena vuota, Mondadori, Milano, 2014, pp. 357, € 15,00
Recensione di: Daniele Mangiola
A sentir parlare noi, la nostra cultura patriarcale vecchia
di migliaia di anni, con il suo culto della forza e della violenza, così come
si sarebbe imposta soprattutto a partire dall’evoluzione della religione
babilonese – per seguire la affascinante tesi di Walter Wink – parrebbe che la
vera vita sia quella adulta, anzi, quella dell’uomo adulto (che già la donna
adulta è più che altro una figura comprimaria, di supporto…). L’infanzia è un
periodo di passaggio, un’iniziazione, e il bambino un essere incompleto,
grezzo, fatto di potenzialità non definite, di istintualità cieca e
irragionevole, neanche persona finita perché incapace di responsabilità.
Essere bambino si deve, non foss’altro che per motivi di
immaturità fisica, ed è una fase da attraversare, il più velocemente possibile,
supportato e sopportato dall’adulto. “In braccio ancora? Ma sei grande!” si
dice al bimbetto di 5 anni che richiede le braccia del genitore. “Ora sei
grande, e ti devi prendere cura del fratellino!” si dice al piccolino di 4 anni
indicando il consanguineo appena nato. “Nel letto di mamma? Ma ormai sei
grande!” si dice al frugoletto di 3 anni che nel mezzo della notte richiede il
caldo guscio del corpo materno.
Essere infanti, con tutto il suo gioco e la sua spensieratezza,
è una cosa da dimenticare per vivere davvero, perché la vita è fatta di ben
altri principi, la posatezza, la serietà, il buon senso.
Eppure, a sentire Gesù, bisognerebbe tutti tornare bambini.
Il mondo letterario di David Grossman, scrittore israeliano,
è popolato di bambini. Bambini feriti dallo sforzo di entrare nel circolo degli
adulti, bambini tutti raccolti nella fatica di costruirsi attorno corazze per resistere
alla rudezza della vita adulta e che adottano strategie raffinatissime per
attrezzarsi alla sopravvivenza. Bambini con dentro mondi troppo vasti per
riuscire a costringerli tanto agilmente entro il mondo degli adulti. Bambini di
tutte le età, anche di cinquantasette anni, come Dova’le Greenstein, di
professione comico, protagonista di Applausi
a scena vuota.
Sul palcoscenico per l’ennesima replica del suo spettacolo
di cabaret, si trova invece a mettere in scena se stesso, imprigionando il
pubblico in una giostra di ricordi che disorienta, spaventa, diverte, attrae e
respinge. “E adesso, fratelli miei, guardatemi bene e ditemi cosa vedete. No,
sul serio, cosa vedete? Un uomo finito, quasi senza carne addosso, senza
materia. Anzi, con una strizzatina d’occhio alle scienze esatte direi composto
di antimateria. A un passo dalla rottamazione, no?” (p.72).
Dova’le è un bambino gracile, che la banda dei bulli ha
preso di mira, allegro. Ma nessuno dei coetanei conosce la sua vera vita. Una
vita segnata dalla Shoah, come ce ne sono tante tra gli ebrei. Perché non è
finito tutto nel 1945, e i sopravvissuti non passano il loro tempo raccontando
il disastro agli studenti delle scuole superiori o a partecipare ai talk shows
o a scrivere libri. I sopravvissuti devono fare i conti con la sopravvita.
Magari mettono su famiglia, hanno figli e devono anche cercarsi un lavoro. Come
i genitori di Dova’le. Ma su tutto questo aleggiano le ombre oscure di quando
la morte valeva più della stessa vita, di quando tutti attorno a te venivano
falciati e tu chissà come e perché restavi in piedi, di quando non eri più un
uomo ed eri anche meno di un oggetto tra le mani folli di altri uomini che
avevano tutta l’apparenza di essere tuoi simili.
Papà e mamma di Dova’le, sconosciuti eroi macilenti, si
danno da fare cercando di dimenticare di non essere stati umani in un tempo
lontano ma sempre presente. E il papà si affanna per ricostruire una vita più o
meno sensata, tutto proiettato nel suo dovere di padre, marito, capofamiglia,
tra dieci piccoli lavori diversi, senza mai posa. E tra un lavoro e l’altro
cura la casa, lava, cucina, rammenda. La madre invece porta sul viso una
maschera a brandelli, e vive tra gli altri sempre a capo chino perché non si
veda. Ha già tentato di tagliarsi le vene e perciò non può essere lasciata mai
sola, in casa sempre persa in un mondo lontano.
E il piccolo Dov, così fragile e spensierato, cammina sulle
mani, se ne va in giro così, dappertutto, perché da quella prospettiva la vita
ha un’altra faccia, il pianto sembra un riso, la tristezza gioia, la pesantezza
leggerezza, le gambe non fanno alcuna fatica a camminare per le strade del
mondo. Dov, che nasconde dietro le sue buffonerie la paura per le esplosioni d’ira
impreviste del padre, manesco e rigido, la preoccupazione per la fragilità
della madre di cui si prende cura, per la quale ogni sera, mette su un
personale spettacolo di cabaret perché possa trovare ristoro per qualche
minuto. Con la sua buffoneria, il piccolo Dov, è un fine stratega, porta avanti
il suo progetto di amore per il mondo, pur così ostile verso di lui. Col suo
corpo capovolto Dova’le accoglie la vita senza odio né rabbia.
I bambini sono santi in questo, perché accolgono il mondo
senza giudizio, disposti a riposizionare se stessi per abbracciare la vita
anche se arriva armata di punte aguzze, anche se ne avranno il corpo dilaniato;
se colpe ci sono le assorbono in sé pur di rendere innocenti gli adulti che
hanno accanto, pur di redimerli, salvarli dalle sofferenze che essi pure hanno
e hanno dimenticato di avere.
Applausi a scena vuota
è un canto d’amore verso padre e madre, verso ciò che è famiglia, imperfetta,
ferita, stanca, disorientata, per nulla nido accogliente. Ma, quale che sia, un
bambino non vorrà mai perdere la sua famiglia. E farà di tutto per tenerla in
piedi a costo del sacrificio di sé. “Il nostro appartamento improvvisamente mi
sembra un paradiso, anche se è piccolo, buio e soffocante per la puzza degli
stracci, dei pantaloni arrivati da Marsiglia e delle pietanze di mio padre. Ma
anche quella puzza a un tratto mi piace. È vero che era tutto una merda, un
manicomio. È vero che me le davano spesso e volentieri. E allora?” (p.269)
Dova’le, comico forse in fin di vita per un qualche tumore,
è ancora quel bambino, bloccato dall’orrore di essersi trovato un giorno a
dover decidere se preferire la morte del padre o quello della madre, squassato
dalla fatica di dover scegliere a chi dei due dare vita rintracciando i bei
momenti da ricordare.
Un'altra cosa che caratterizza la scrittura di David
Grossman è la figura dei padri. Troppo spesso rinchiusi in gusci duri da adulto
ma con occhi di bambino, capaci dei piccoli gesti dell’amore reale, fisico,
tenero, capaci di perdersi nei sogni, bisognosi dell’àncora salvifica dello
sguardo di un figlio. E così tra le pagine dei suoi romanzi si ritrovano quegli
attimi di paradiso che redimono la vita di un padre e di un figlio insieme.
Come i venerdì mattina di Dova’le, che la mamma faceva il turno in fabbrica e
il padre se lo portava in giardino, e tenendolo accucciato a sé fischiettava
imitando gli uccelli mentre gli imboccava la colazione.
La follia del messaggio di Gesù sta nel fatto che il mondo
può essere redento da gesti deboli come il perdono e il sacrificio di sé, non
dall’imposizione di questa o quella idea. Chissà, forse un giorno ci renderemo
conto di quanto della nostra vita, della nostra autostima, dei nostri attimi di
serenità è tenuto in piedi, salvato, dai quotidiani deboli gesti dei frugoletti
che ci sgambettano per casa.
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