La mattina del 9 aprile 1945,
esattamente 70 anni fa, un giovane uomo avanza nudo verso la forca sul prato inaridito dal freddo di un inverno ancora non finito del campo di
concentramento di Flossenbürg. Mentre muore impiccato si sentono ormai vicini i
bombardamenti alleati su Berlino, il Reich sta capitolando, una diabolica
pagina della storia umana si sta chiudendo. E in questa pagina il nome di quest’uomo
è scritto tra quelli degli eroi: Dietrich Bonhoeffer.
Ha soltanto 39 anni ma ha già
detto e fatto a sufficienza per dare una svolta potente a tutto il pensiero cristiano
che sarebbe seguito.
Di lui voglio ricordare una
considerazione inattuale che però stava formulando proprio nell’ultimo periodo
della sua vita, quella della prigionia a Tegel, da dove il 18 novembre del ’43
comunica di essersi dedicato alla redazione di questo saggio.
Un breve saggio rimasto
incompiuto dal titolo “Che cosa significa dire la verità?” recuperato tra le
sue carte del carcere. Cosa significa dire la verità? Cominciamo subito col
dire che il saggio affronta il problema evitando la questione di principio, l’impostazione
teoretica, ontologica, anzi dichiarando esplicitamente che la verità inerisce
direttamente la dimensione pratica dell’uomo. La verità non è un “in sé”, bensì
immediatamente parola, azione.
Dire la verità significa
rispettare lo stato del mondo nei confronti di Dio, cioè non ignorare prima di
tutto che esso vive tutt’ora nella separazione e che la separazione porta con
sé la vergogna, il pudore. Una spudorata verità ha solo l’apparenza della
verità, ne è solo “un morto simulacro”, perché mente sull’essenziale, sul fatto
cioè che esista un limite tra un uomo e un altro. Mente su ciò il senza limite,
colui che odia il creato di Dio, e mentendo intende distruggerlo, per costruire
sulle macerie di esso un’altra realtà, a suo uso e consumo.
“Colui che pretende di “dire la
verità” dappertutto, in ogni momento e a chiunque, è un cinico che esibisce
soltanto un morto simulacro della verità. Circondandosi dell’aureola di
fanatico della verità che non può aver riguardi per le debolezze umane, costui
distrugge la verità vivente tra gli uomini. Egli offende il pudore, profana il
mistero, viola la fiducia, tradisce la comunità in cui vive, e sorride con arroganza
sulle rovine che ha causato e sulla debolezza umana che “non sopporta la
verità”. Egli dice che la verità è distruttiva ed esige delle vittime, e si
sente come un dio al di sopra delle deboli creature, ma non sa di essere al
servizio di Satana.”
Dicevo, considerazione inattuale,
questa sul dire la verità, in quanto parla di pudore, una parola che suscita
grasse risate in questo tempo che ha nella spudoratezza la propria cifra.
Il mondo della rete, ad esempio,
è un florilegio di verità svelate, tutte incredibilmente destabilizzanti, tutte
denunciate e urlate, e tutte ridotte a pettegolezzo senza costrutto. Come dice
il principio della rana bollita di Noam Chomski, a forza di conoscere foschi
presagi sul nostro futuro ci stiamo abituando ad accoglierlo passivamente,
questo futuro. Se il XX secolo si è segnalato come il tempo della fine di tutte
le verità, il XXI secolo è quello della moltiplicazione delle verità, se il
Novecento è stato il secolo della verità messa a tacere, il Duemila è quello della
verità chiacchierata.
A che serve una verità ridotta a
chiacchiera?
A chi serve, bisognerebbe forse
chiedersi?
Verità trasformate in slogan che
non hanno come obiettivo di rispettare la realtà così come essa è, scissa e
contraddittoria, ma intendono costruirne un’altra, di realtà, semplificata,
senza contraddizioni. “La verità di Dio si è incarnata nel mondo e vive nella
realtà, mentre la verità di Satana è la morte di tutto il reale.”
Queste riflessioni, forse,
avevano per Bonhoeffer un’urgenza molto più concreta di quanto possa apparire
dall’argomentare teoretico. Probabilmente intanto che scriveva queste pagine
era anche sotto torture perché rivelasse i nomi di coloro che facevano parte
dell’associazione che poi tentò l’assassinio di Hitler del 1944.
Non era che un pastore, un accademico,
un uomo di lettere, un rammollito, pensava il Reich, che lo affidò, come gli
altri arrestati di quell’operazione, all’ufficiale Manfred Roeder, noto proprio
per la crudeltà dei suoi metodi. E Bonhoeffer era l’anello debole della catena,
e il primo che gli fu affidato, tra i cospiratori. Non si sa nulla di come andò
con il giovane pastore, ma si sa qualcosa di come andarono gli altri
interrogatori, e si conoscono i metodi di questo ufficiale gentiluomo.
Per mesi le sorti dell’organizzazione
clandestina dipesero dalla resistenza di Bonhoeffer. Intanto lui scriveva le
lettere raccolte poi in “Resistenza e resa” da cui nulla traspariva. Rifletteva
su cose come il dire la verità. Faceva forse, anche un bilancio delle decisioni
prese, lui che sapeva di quel progetto di assassinio (che poi fallì), che aveva
aiutato famiglie di ebrei a fuggire clandestinamente dalla Germania. Aveva
lottato contro il sistema del Reich con ogni mezzo illecito, oltre che con
quelli leciti.
“Se sali sul treno sbagliato non
serve a nulla correre lungo il corridoio in direzione opposta”
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