S. Claiborne & T. Campolo, Red Letter Christianity: Living the Words of Jesus No Matter the Cost, London, Hodder & Stoughton, 2013, pp. 288, € 13,45
Recensione di: Daniele Mangiola
Che rapporto c’è tra la Chiesa e il mondo? Se è vero, come è vero, che procede con passo da pellegrina sulla terra, se la sua meta è altrove, come deve vivere questa estraneità? Differenti interpretazioni a questo interrogativo hanno dato differenti modalità di essere e testimoniare la propria cristianità.
Da una chiesa totalmente proiettata sulla propria meta celeste, che procede a passo spedito attenta a non avere alcun contatto con la polvere che calpesta, per non contaminarsi, e chi voglia seguirla lasci subito e per sempre tutto ciò che lo lega a questa terra senza più voltarsi. Una chiesa che non ha alcuno sguardo per il mondo se non di rifiuto, nessun coinvolgimento.
Ad una chiesa che, in nome del proprio superiore destino si sente chiamata a governare questa terra, di modo che essa non sia causa di contaminazione per la chiesa stessa, determinata a far di tutto perché la giustizia di Dio regni sul mondo, tutta concentrata nella propria missione di conquista.
La chiesa ama il mondo? odia il mondo? proverà a redimerlo o eviterà di contaminarsi con esso? cosa è poi “mondo”? gli uomini? le strutture, i sistemi, quelle forme in cui si manifesta la comunità umana e che definiamo “società”? la creazione tutta, la natura? o soltanto il peccato che tutto questo corrompe?
Intanto che cammina sulla terra, che farà la chiesa? parteciperà alla vita sociale? si preoccuperà del destino della natura? parteciperà alla sofferenza del povero, dell’orfano e dello straniero? e con quale obiettivo? strapparli al mondo? o salvare il mondo nella sua interezza? oppure, certa dell’ineluttabile destino di esso, eviterà ogni forma di coinvolgimento sapendo che nulla potrà essere fatto per correggerne la caduta?
E’ evidentissimo nella vita della prima chiesa degli Atti degli Apostoli che quella piccola comunità “could show the world what a society of love looks like” (68), afferma Shane Claiborne in Red Letter Christianity. Living the Words of Jesus no matter the cost, il libro-dialogo scritto a quattro mani con Tony Campolo, edito da Hodder & Stoughton nel 2013. In questa affermazione c’è una specifica visione dell’impegno sociale della chiesa dunque di una chiamata di questa ad essere calata entro il mondo.
Tony Campolo, prolifico scrittore, pastore battista, professore emerito di sociologia alla Eastern University, è stato spiritual advisor di Bill Clinton, esponente della sinistra evangelica americana, Shane Claiborne, metodista, che di Campolo è stato allievo, è uno dei leader del movimento The Simple Way, cristiani di denominazioni diverse che vivono in comunità entro i sobborghi di Philadelphia a contatto con poveri ed emarginati.
In diverse edizioni della Bibbia si trovano i detti e i discorsi di Gesù evidenziati in rosso all’interno dei Vangeli. Questa è l’origine del nome “Red Letter Christianity”, un movimento transdenominazionale di cui Claiborne e Campolo, insieme ad altri, quali Jim Wallis e Brian McLaren sono i promotori, che si pone l’obiettivo di tradurre in vita pratica le parole di Gesù.
In una realtà diffusa di chiese numerose e popolate viviamo, come cristiani, la coscienza che sebbene il numero di credenti sia ampio, rischia di diventare sempre più difficile la ricerca tra questi di autentici discepoli. Da qui un fenomeno sempre più evidente di insofferenza che porta tanti cristiani a forme di religiosità individuale e non-comunitaria, sfiduciati dalla chiesa come struttura che si manifesta certo efficiente e funzionale, ma sempre meno autentica. “People today want a Christianity that looks like Jesus again” (13), soprattutto tra le giovani generazioni.
Il primo Dialogue on History spiega il motivo e l’origine del nome “Red Letter Christians”. La derivazione è quella evangelical e fundamentalist, due appellativi che hanno avuto la loro forza e la loro ragion d’essere. Quando la teologia liberale ha messo in discussione l’inerranza delle Scritture il termine fundamentalist ha dato ragione di un bisogno di riaffermare la completa fiducia nell’autorità della Parola. Successivamente però, dopo i primi decenni del Novecento, fundamentalist ha cominciato ad essere associato con un cristianesimo oscurantista e anti-intellettuale; per questo motivo autori come Billy Graham cominciano ad usare un nuovo appellativo che riunisse quegli evangelici che non si riconoscevano in quei luoghi comuni, il termine evangelical. Con il passare del tempo, però, ci ritroviamo oggi una realtà in cui evangelical è associato ad un evangelismo di destra, a favore della guerra, delle armi, della pena di morte, anti-femminista, anti-gay, anti-aborto, anti-ecologista.
La scelta di un nuovo nome nasce dunque dal bisogno di testimoniare l’estraneità da quegli angusti stereotipi, senza doversi per forza identificare con quello altrettanto angusto di evangelici progressisti o di sinistra.
E’ evidente dunque che i Red Letter Christians intendono l’essere cristiani come un preciso impegno di testimonianza sociale, di cura per la terra e per gli oppressi, a sequela delle parole di Gesù.
Due generazioni a confronto, quella di Campolo, ottantenne, una vita di impegno accademico, quella di Claiborne, poco più che trentenne, impegnato con gli ultimi e gli emarginati. I vari dialoghi sono raggruppati in tre sezioni, la prima di argomenti teologici, sulla comunità, la liturgia, l’inferno, l’Islam, l’economia; la seconda sezione di impegno e vita sociale, su ambiente, questione femminile, razzismo, omosessualità, disobbedienza civile; la terza sezione di tematiche più ampie quali guerra e violenza, il debito dei pesi poveri, il medioriente, la politica, la missione.
Una delle critiche (e sono tante che giungono da più parti del mondo evangelical americano) alle quali il testo cerca di rispondere è quella secondo cui il concentrarsi sui discorsi di Gesù significhi una arbitraria sottovalutazione del resto delle Scritture. E’ riaffermata la diretta ispirazione dello Spirito Santo su tutte le Scritture. Ma è arrivato il tempo “to take the teachings of Jesus seriously” (6).
Una altra critica alla quale il testo prova indirettamente a rispondere è quella riguardante la sottovalutazione dell’istanza teologica a favore di una pratica comunitaria forse troppo disinvolta. Così Claiborne precisa “Every long-term of our communities is encouraged to be a part of some local congragation” (23), ma è vero che nella preghiera in Giov 17,22 Gesù chiede che noi siamo “uno”. Difficile conciliare questo con la realtà di oltre 30 mila denominazioni cristiane. Una comunità che si concentra sulle parole di Gesù può condividere una vita di pratica cristiana senza dover diventare a-denominazionale o post-ecclesiastica.
Il testo è di sicuro interesse anche per il fatto che affronta in modo diretto ed esplicito tematiche “roventi” ai nostri giorni. Non sempre e non dappertutto condivisibili, le posizioni espresse, ma sono la testimonianza del tentativo di uno sguardo alternativo, radicalmente biblico alle questioni poste dalla nostra società. Uno sguardo che vuole evitare di classificarsi conservatore o progressista ma cerca di restare concentrato sulla coerenza con messaggio evangelico. Come può ad esempio, un cristiano, dichiararsi pro-life, dunque contro aborto ed eutanasia, e poi essere a favore della guerra e della pena di morte? (85).
Sarà di sicuro scomodo leggere le pagine nelle quali si riconosce che il mondo evangelico abbia da prendere ispirazione dalla ricerca di autentica spiritualità di alcune forme di cattolicesimo romano, da figure come Ignazio, Caterina da Siena, Francesco d’Assisi, Giovanni della Croce.
E’ innegabile comunque che il ritratto di evangelico delineato è di sicuro agli antipodi da quello delle invettive pubbliche anti-islamiche, del consumismo a-critico, del moralismo bigotto e giudicante, dell’evangelismo sfarzoso e mediatico nel quale tanta parte di noi si rispecchia a fatica.