Franco La Cecla, Ivan Illich e la sua eredità, Medusa, Milano, 2013, pp. 117, € 13,00
Recensione: Daniele Mangiola
Leggere è un gesto semplice, ma anche complicato.
Confrontarsi con uno scritto significa entrare in una relazione multiforme con
le idee di qualcun altro, colui che ha scritto. Che relazione c’è fra biografia
e idee? Quanto vissuto c’è tra le pagine di un autore qualsiasi? Quanto
necessario è lo sforzo di conoscere la vita, le azioni, i gesti della persona
che ha espresso le idee con le quali ci confrontiamo in quanto lettori? E
inoltre, quale obbligo abbiamo, in quanto lettori, alla fedeltà rispetto
all’autore? Che relazione ci lega, in quanto persone? In che misura ciò che
leggiamo “appartiene” a noi? Questioni infinite e per nulla originali, tra
l’altro e, alla fine, ciascun lettore si pone in un suo particolare modo
rispetto al testo e al suo autore.
In ogni caso, nei libri, si cerca se stessi, in un modo o
nell’altro. È della propria vita, del proprio essere che si legge, in quanto
lettori, dentro parole e idee altrui. E i modi in cui ci si specchia in quelle
idee sono tanti.
Ci sono persone per cui le idee sono un lieto divertissement con cui baloccarsi finché
si ha voglia a patto che questo non intacchi più di tanto le comodità del
vivere quotidiano. Che poi sono la gran parte, al punto da legittimare la
cinica considerazione che le questioni di principio, siano roba da oziosi, da
gente che, in fondo, ha la pancia piena e può permettersi il lusso di
trastullarsi con le astrazioni a tempo perso, per hobby. Che l’etica sia una
cosa per tempi di benessere. Pare cosa da eccentrici il fatto che l’incontro di
una certa idea possa realmente stravolgere l’esistenza.
Leggere bene e razzolare male è una pratica molto diffusa, e
non è da meno l’altra pratica del predicar bene e intanto persistere in
razzolate alquanto slegate da quanto si predica.
Ci sono poi i casi in cui idee e gesti si legano all’insegna
di una coerenza che fa rima con testimonianza. Tra questi uno esemplare è
quello di Ivan Illich. Di lui ci racconta Franco La Cecla nel suo ultimo Ivan Illich e la sua eredità, edito da
Medusa. Tutte le contorte considerazioni precedenti rientrano nell’introduzione
del libro qui presentato, che non si vuole proporre come una introduzione all’opera
di Illich; un’opera la cui conoscenza in Italia è ancora episodica, affidata a militanze
diverse le quali adottano a manifesto questa o quella idea illichiana senza
avere una adeguata conoscenza dell’insieme del pensiero di un autore così
poliedrico e dinamico. Perciò anarchici, cattolici progressisti, sostenitori
della decrescita felice, tutti si richiamano all’una o all’altra delle proposte
di Illich. E sembra manchi invece una lettura “disimpegnata”, non militante,
dell’opera di questo autore, organica e di ampio respiro, che si preoccupi di
guardare anche alla vita dell’uomo, autore dei testi. La natura particolare e
particolarmente impegnata della sua coerenza.
Ma anche la coerenza è un gesto, in fondo. Ed è questa forse
la catena del pezzo di mondo che chiamiamo Occidente, la continua interferenza
del leggersi sull’agirsi, e dell’agirsi sul comprendersi, in un circolo
virtuoso, o vizioso, dipende.
“Il mio ritratto di Ivan non è completo, non è esaustivo ed
è maledettamente legato al rapporto personale che ho avuto con questo uomo e
all’influenza che egli ha esercitato e ancora esercita su di me. Da questo
punto di vista non pretendo di essere un fedele lettore del suo pensiero e non
voglio essere identificato con un suo seguace. Anzi ritengo una fortuna non
essere illichiano, come per altro non era nemmeno Ivan” (p.11).
Il testo di Franco La Cecla si snoda attraverso agili
capitoli di piacevole lettura, fotogrammi che tentano di incastonare momenti
dell’attività intellettuale entro contesti di vita vissuta nell’intenzione di
raccontare come i due aspetti si integrassero e influenzassero reciprocamente
nella biografia di Ivan Illich; ovviamente con l’occhio e la voce di chi
racconta se stesso entro le immagini descritte, a partire dal primo incontro
del 1980.
I diversi passaggi dall’Italia di Illich, che proprio qui
aveva cominciato la propria formazione che lo aveva portato all’ordinazione a
sacerdote della Chiesa Cattolica nel 1951. E negli anni Ottanta egli veniva in
Italia come uno dei punti di riferimento del movimento dell’auto-costruire come
nuova forma dell’abitare, di cui La Cecla era uno degli attivisti e promotori.
Illich, che parlava di convivialità come forma del con-vivere a dimensione
dell’uomo, dell’individuo, contro una società della tecnica che tende a
ridimensionare sempre più l’umano per far posto alla macchina e alla sua
produttività.
Illich, poliglotta fin da bambino, un po’ croato un po’
ebreo a Vienna, dalla quale deve fuggire nel 1941 a causa delle leggi
antisemite, rimasto apolide per sempre e straordinariamente capace di essere a
casa propria in ogni terra. Illich capace di incantare i suoi ascoltatori per
la sua eccezionale capacità di esprimersi nella loro stessa lingua ma anche con
il fascino della sua persona.
Con veloci e vividi schizzi il testo di La Clecla riesce
davvero ad accompagnare il lettore vicino al protagonista del suo racconto, ci
si sente quasi tra il folto e variegato gruppo di seguaci di cui amava
circondarsi, cercando sempre, ovunque si trovasse, delle sistemazioni adatte ad
ospitare quelle movimentate comunità.
A partire dal suo punto di vista di amico e seguace non
allineato l’autore ci racconta momenti salienti degli ultimi vent’anni di vita
di Illich, quelli segnati dal tumore al viso con il quale decise di convivere
rifiutando le cure mediche tradizionali sia per non rinunciare alla sua intensa
vita di ricercatore e conferenziere in giro per il mondo, ma anche per coerenza
con la sua critica radicale alla scienza medica moderna.
Nemesi medica,
pubblicato nel 1976 aveva creato grande scalpore con la sua denuncia di come la
pratica medica moderna, contrariamente alla promessa di miglioramento della
qualità della vita, anzi, proprio in forza di questa promessa, abbia di fatto
espropriato l’individuo della responsabilità del proprio corpo che diventa
oggetto di cura e controllo costante da parte del personale medico. La
stigmatizzazione della malattia e della sofferenza in realtà ha creato una
situazione di costante concentrazione sulla malattia in fuga dalla quale,
l’individuo, trasformato vita natural durante in paziente, è oggetto del controllo
continuo di tecnici a cui ha affidato la stessa coscienza della propria vita
corporea.
La Cecla racconta di come la coscienza della malattia e
dell’approssimarsi della morte (che poi fu meno veloce di quanto Ivan, come La
Cecla lo chiama spesso, si aspettasse) modifica gradatamente la personalità
stessa di questo uomo coraggioso e attivissimo. La passione per la ricerca
delle criticità nascoste entro le pieghe del sistema della modernità, diventa
sempre più intrisa di denuncia, “arrabbiata”, come la definisce l’autore, come
di un uomo che sente sempre più forte l’urgenza di dire tutto quello che ha da
dire prima che sia troppo tardi, sempre più deluso di non vedere accolto il suo
messaggio, in faccia ad una modernità che invece dimostra di andare proprio
nella direzione autodistruttiva che egli già dagli anni 60-70 profetizzava, ma
con una velocità superiore alle sue stesse previsioni.
La casa di Berkley, dove nei primi anni Ottanta egli aveva
raccolto attorno a sé una piccola comunità di studiosi e ricercatori, respira
questa tensione di un uomo che ha sempre meno tempo per gli altri a meno che
non siano funzionali al suo progetto. È in questo clima che avviene la rottura
dell’amicizia tra Illich e La Cecla, considerato troppo “indisciplinato” dal maestro,
una rottura che durò cinque anni. È in questo stesso clima che Ivan termina e
pubblica Genere e sesso, troppo in
anticipo sul proprio tempo, accolto malissimo dalla stampa americana.
“Insomma mi sembrava che Ivan fosse vittima di una rigidità
ideologica dovuta alla voglia di rendere il suo pensiero il più acuminato
possibile, ma che questa rigidità rendesse il suo pensiero ‘inutilizzabile’,
inappropriabile davvero da chi aveva voglia di cambiare le cose… Oggi penso che
effettivamente se le idee di Ivan sono diventate patrimonio comune lo si deve
al fatto che arrivano filtrate da anni, dal fatto che in qualche modo sono
sopravvissute al ‘modo’ con cui Ivan voleva renderle efficaci” (p.84).
È questo l’interrogativo di fondo del testo di Franco La
Cecla, cosa rimanga di un pensiero così radicale e vasto, frammentato com’è tra
“ismi” e militanze diverse che a esso si rifanno. E se alcune delle critiche
illichiane al sistema sono diventate di moda è anche perché a questa lettura
parziale sfugge la sua denuncia radicale di un sistema che tende ad assorbire e
rendere funzionali anche le voci critiche, sfruttandole per il proprio
potenziamento. E se ecologismo, naturalismo, tendenze libertarie, addirittura,
sono diventati programma in agenda della Chiesa Cattolica è anche perché in
questo modo si è spuntata la più radicale e sistematica critica di un Ivan
Illich che ad un certo punto aveva rinunciato al suo servizio sacerdotale,
senza peraltro mai abbandonare il sacerdozio.
E quanto radicale è la critica cristiana di Illich? Questo è
l’ultimo interrogativo di La Cecla. Andando a ricercare le origini cristiane
delle fondamenta stesse della modernità questo scomodo pensatore evidenzia come
la Chiesa in quanto istituzione abbia gradualmente contribuito al consolidarsi
di un sistema delle cose corrotto, invece che svolgere il proprio peculiare
compito di evangelizzazione e conversione del mondo. Letta in questo senso la
critica illichiana indica la via per un ritorno al cristianesimo originario,
premoderno, a partire dal quale guardare la contemporaneità.
Ma La Cecla si propone di andare un passo oltre, di leggere
Illich non come un “pensatore cristiano”, ma come un “pensatore e basta”. Così
la sua critica alle origini stesse della modernità diventa espressione di un
dubbio, al quale, secondo l’autore, lo stesso Illich non è sfuggito, che il
mondo moderno, del dominio della tecnica, disumanizzato, che ha ridotto
l’individuo ad ingranaggio di un sistema autoconservativo, non sia
semplicemente frutto della corruzione del cristianesimo, ma il risultato stesso
del cristianesimo.
Che, in sostanza, da quella particolare visione del mondo e
dell’uomo che il cristianesimo inaugurò non poteva che derivare un sistema
strutturato così com’è quello in cui viviamo e pensiamo, che chiamiamo
Occidente. Da Paolo, da Giovanni, dal grande mandato a portare l’evangelo a
tutto il mondo, dunque, non poteva che risultare un mondo con le dinamiche e le
criticità sulle quali ci interroghiamo.
Ma questo interrogativo è, dice La Cecla “spingere Ivan
oltre di sé. Come se Ivan avesse arretrato di fronte alla possibile evidenza
che il cristianesimo come immenso edificio portasse da sé le conseguenze che
non sono solo deformazioni” (p.112). Illich è arrivato a questa radicale
interrogazione? E se sì, ha poi davvero sentito il bisogno di “arretrare”?
Vista dall’ottica cristiana, questa critica, non nuova, è
meno dirompente di quanto ad un pensatore laico come è La Cecla possa apparire.
Perché dimentica il fatto fondamentale che in nessun momento Paolo, Giovanni, o
le parole di Gesù hanno profetizzato un mondo perfetto, in nessun momento la
Scrittura indica la strada per un distacco dal mondo “peccaminoso” per
costruirgli un mondo concorrente, “santo”. Il portare la Buona Notizia di un
altro kosmos, sistema delle cose, radicalmente diverso da questo kosmos, è
sempre rimasto un pellegrinaggio entro questo stesso mondo, questo
stesso sistema. Non è mai stato odio del mondo, sogno di una “Utopia”. È sempre
stato amore del mondo così com’è, pur corrotto dal peccato.
Potremmo discutere, e lo facciamo, su come e quanto l’amore
per il mondo sia diventato complicità con esso e di tante altre cose di questo
genere, ma in nessun momento l’Evangelo è stato promessa del paradiso in terra
e sempre è stato ben chiaro che un giorno tutto questo nostro mondo avrà,
invece, fine.
Rimane l’impegno quotidiano, in quanto cristiani, a
mantenere lo sguardo vigile e attento, contro le mille tentazioni del sistema,
e in questo senso ad essere testimoni di una controcultura che indica il mondo
di Dio, lo anticipa, anche, ma non coltiva il sogno di impiantare il regno di
Dio in terra. E anzi, la storia insegna come i tentativi fatti in questa
direzione abbiano sempre generato mostri terrificanti. Per questo impegno di
testimonianza, sono importanti la forza e la coerenza di pensieri come quello
di Ivan Illich uomo, pensatore, cristiano.
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