lunedì 24 febbraio 2014

Evangelici d'Italia



Evangelici d'Italia

Esiste una caratterizzazione idealtipica dell'evangelico italiano? Esistono sicuramente dei tentativi compiuti in tale direzione. Non è strano trovare in tali tentativi l’indicazione di una serie di elementi che sembrano costituire dei veri e propri handicap che impediscono o rendono difficile la delineazione dell’identità di un evangelismo italiano. Alcuni di questi elementi nascono al di fuori della variegata comunità evangelica e protestante; altri sono prodotti originali. Questo post ne discute tre, tentando di dimostrare come essi siano inconsistenti al punto tale da impedire il riconoscimento, la valorizzazione e anche l’apprezzamento di un evangelismo italiano dai tratti originali e ancora da scrivere e definire, soprattutto in chiave positiva.

1. Un ossimoro
L'italiano non può che essere cattolico, legato alla religione di Roma e questa religione viene proposta come un elemento essenziale dell'identità italiana. Il presupposto di partenza di questo elemento che nasce fuori dal mondo evangelico, a dispetto delle lagnanze protestanti, e nonostante abbia avuto un certo ruolo nel passato, attualmente non è in funzione anti-protestante e anti–evangelica. Il nemico o i nemici potrebbero essere altri, e di varia natura (l’immigrazione, la presenza di partiti pseudo–nazionalisti, il crollo del partito di ispirazione cattolica, etc). A volte questa sorta di stigma è di ordine reattivo, quando cioè nel passato alla religione di Roma sono state attribuite le miserie della nostra identità nazionale (si pensi al celebre scambio tra Sismondo de Sismondi e Alessandro Manzoni).
In tutti i modi, questo ossimoro (italiani ed evangelici) era uno stigma di ritorno al quale gli evangelici italiani delle passate generazioni erano molto sensibili. Avvertivano sulla pelle lo stigma di essere considerati interpreti di un modo d'essere straniero, poco italiano; molto spesso, però, la prassi e le convinzioni espresse superficialmente parevano anche e paradossalmente confermare lo stigma.
Un evangelico impegnato in una impresa apologetica superficiale, prima o poi avrebbe fatto emergere una serie di luoghi comuni i quali se hanno avuto anche un legittimo sottofondo storico, proprio da un punto di vista apologetico oggi risentono del corrosivo effetto del tempo e dei cambiamenti storici. In genere gli evangelici quando parlavano o ancora oggi parlano di etica pubblica sono pronti a indicare l'etica protestante dei paesi nord atlantici (dimenticando per esempio le ragioni etiche della crisi economica dei primi decenni del XXI secolo). Per quanto concerne i costumi sociali si è pronti a indicare l'arretratezza dei costumi nostrani a fronte delle ordinate file davanti al solito autobus inglese (dimenticando le piaghe tipiche delle società avanzate: hooligans, frammentazione di vincoli sociali, la sperimentazione pragmatica e funzionale delle etiche che hanno a che fare con aree sensibili come la nascita e la morte).
In tutti i modi, in quanto evangelici sembra che bisogna sempre da capo dimostrare la nostra italianità: come potrebbe essere altrimenti se, visto che non crediamo nel purgatorio, praticamente è come se sfregiassimo il genio di Dante, con grande scorno di Roberto Benigni?

2. Insignificanti
Questo è un elemento molto complesso che nasce al nostro interno. In sostanza questo elemento vorrebbe certificare un evidente fallimento  di ordine socio-culturale dell’evangelismo nostrano, un fallimento la cui registrazione avrebbe dalla sua i numeri e la mancanza di entità, produzioni e prodotti sociali misurabili. Dove sono i Willberforce italiani? Dove i Primi ministri, i Politici di successo, dove le pagine dei libri di storia in cui leggiamo che questo o quel tratto dell'identità italiana sono da ascrivere agli evangelici. Dove sono le battaglie politiche dei protestanti, dove i movimenti di Riforma, … dove, le poltrone di Porta a Porta occupate da evangelici?
Che questo sia un elemento psicologico sensibile lo si può vedere, per converso, dall'orgoglio non eccessivamente celato per il fatto che negli ultimi anni si sono potuti esibire dei campioni dello sport evangelici: da Kaka a Cavani al “predicatore” Nicola Legrottaglie.
In questo elemento, mancante, dell'identità degli evangelici d'Italia, non si tratta registrare il fatto che non possiamo prendere atto, e beneficiare, de facto, della popolarità di un campione o di qualche altro prodotto socialmente ostensibile. No, si tratta dell'accusa, funzionale, rivolta al mondo evangelico, a non saper costruire il campione sociale da esibire.
Ma chi si fa portatore di una simile constatazione? Difficilmente tra i propugnatori di una simile nota negativa si trovano i conduttori di chiese. Per loro, impegnati come sono, a volte per lunghi anni della loro esistenza, a pasturare comunità in carne e ossa, il negativo ha a che fare maggiormente con le dinamiche della perseveranza spirituale come sono presentate nel NT. Anche coloro che sulla base di una familiarità maggiore con tutta la rivelazione si avventurano sempre più spesso in imprese a carattere sociale difficilmente si abbandoneranno a meta-analisi come quelle presupposte dal punto che stiamo sviluppando.
No, i propugnatori della rilevazione di una simile carenza, che gioca negativamente nella delineazione dell’identità degli evangelici d’Italia, sono per lo più operatori di associazioni e agenzie paraecclesiali, intenti nella maggior parte dei casi a promuovere la causa della propria organizzazione, buona o sbagliata che sia. La dinamica è abbastanza scontata e potrebbe essere letta con diverse chiavi di lettura: si delinea preliminarmente, e negativamente, uno scenario insufficiente (siamo socialmente insignificanti) per poi far emergere l'appropriatezza del proprio progetto. Ci sarebbe addirittura una radice storico-teologica per una simile posizione, da rintracciare nella teoria dell'apostasia della chiesa per cui è possibile immaginare nell’opera di Dio un grado zero da poter certificare e a partire dal quale iniziare la riscossa. Anche la retorica legata ai sospirati "risvegli" sembra a volte affetta da questa sindrome. Quante volte si legge, in report scritti magari per raccattare qualche dollaro in giro per il mondo, che è solo da poco che si predica la grazia in Italia o che le chiese gospel-centered sono pochissime, etc.
Ci sono almeno due o tre ragioni che rivelano la problematicità della predicazione dell'insignificanza degli evangelici.
In primo luogo è una petitio principi. Se si stabiliscono, in anticipo e surrettiziamente, i prodotti sociali da ritenere come indicatori della significanza sociale, allora quando si andrà a leggere la realtà o si troverà conferma o disconferma, a seconda degli obiettivi che l’analisi si propone. In sostanza, la teoria dell'insignificanza non è oggettiva, contestuale ma è ideologica, calata dall'alto e contraddittoria.
In secondo luogo, e di conseguenza, non ha un sistema di rilevazione quantitativo e qualitativo adeguato: come valutare i contesti microsociali? Che valore ha, in Italia, l'attribuzione, in un paesino del sud, di una onorificenza al primo degli evangelici del paese, che quarant'anni prima era perseguitato e che ora viene elogiato e premiato? Cosa pensare della teoria dei terreni comunali donati in comodato più o meno perenne a comunità evangeliche riconosciute ormai come un riferimento sociale imprescindibile del territorio?
In terzo luogo, l'insignificanza, e ciò che si vorrebbe come sostituto, è una sorta di bisogno maslowiano di categoria molto alta, avente a che fare con piccole elite alla ricerca di una definizione sociale della propria professionalità full-time. Si tratta, insomma, di bisogni da "pancia piena" da parte di evangelici di terza, quarta generazione. Tuttavia, quando queste aspettative incrociano il mondo dei linguaggi giovanili con una strumentalizzazione di questi ultimi, allora si crea una miscela esplosiva per lo zoccolo duro dell'evangelismo italiano, le chiese locali.
Infine, si tratta della rilevazione di una presunta carenza che non rivela la presenza di una sana teologia biblica. Se da un lato la Bibbia, nel suo insieme, non favorisce mai il quietismo e l'adattamento alle dinamiche sociali, dall'altra parte non fa della rappresentatività sociale fine a se stessa, fosse anche degli evangelici, un obiettivo in sé, tanto da delineare come una mancanza spirituale il suo non perseguimento.
L'insignificanza o la significanza sociale non possono essere dei parametri validi per costruire o correggere un'identità evangelica italiana.

3. Pochi e ben divisi
Il terzo elemento, il secondo prodotto all’interno, che negativamente gioca sull'interrogativo concernete l'identità degli Evangelici d'Italia, concerne una rappresentazione pessimistica delle relazioni inter-evangeliche. A differenza del secondo elemento, questo potrebbe avere una sostanziale motivazione e base bibliche. In sintesi, non si può non ricordare la preghiera di Gesù per l'unità tra i suoi discepoli e l'appello paolino a combattere uniti nel vangelo (Filippesi). Ma nonostante questo fondamento, potremmo rilevare che non è detto che questi insegnamenti biblici si applichino tout court al tema dell'identità evangelica. La preghiera di Gesù ha una portata così ampia da scoraggiare tutti i tentativi di porre su di essa un'etichetta particolare, né tanto meno ridurla alla mission di un'organizzazione evangelica paraecclesiale. Sarebbe poi una mission non corretta, stante tale l'imperativo sull'unico soggetto abilitato, vale a dire la Chiesa e le chiese locali. Inoltre, potrebbe essere facilmente delineata una differenza tra l'essere uniti nel vangelo e l'essere uniti in quanto evangelici, che addirittura potrebbero essere due cose radicalmente contrapposte.
Il tema però resta valido e per dotarlo di contorni reali e concreti può essere declinato come il problema dello spazio interdenominazionale nel quale gli evangelici di ogni provenienza dovrebbero osare qualcosa di più. Evangelici d'Italia infatti non sono solo le ADI né tanto meno la Federazione delle chiese evangeliche o i Fratelli e neanche gli iscritti all’Alleanza Evangelica.
Esiste allora un capitolo ancora tutto da scrivere in questo campo che ha a che fare con le regole di questo spazio interdenominazionale, con la deontologia della partecipazione e cooperazione. E si tratta di un tema delicato che per produrre un certo grado di visibilità deve tener conto di risvolti teologici (che ruolo hanno le convinzioni professate), etici (deve esserci una convergenza etica e pubblica) ma anche spirituali, come può uno spazio pubblico comune convivere con interessi di parte e che ruolo ha il tema delle riconciliazioni?

Infatti, è forte l'impressione, anche sulla base dell'esperienza storica, che lo spazio interdenominazionale molto spesso è abitato da dinamiche non riconciliate: da un lato i settarismi di ogni ordine e grado delle chiese, dall'altro lato la concezione dello spazio interdenominazionale come spazio in cui operano scismatici di ogni ordine e grado, inquieti e a volte perdenti nelle loro famiglie denominazionali perchè alle prese con dinamiche di leadership e tutti convertiti a progetti unitari allorquando si riversano nello spazio pubblico.
Per tutte queste ragioni, anche questo terzo elemento, negativo, che fa temere per la costruzione di un'autentica identità evangelica, non è valido.
Esso non prende in conto la dimensione trascendente che si situa nell'appello all'unità che altrimenti diverrebbe la trasposizione evangelica del percorso storico della Chiesa di Roma. La molteplicità delle tradizioni ecclesiali per certi versi ed entro certi limiti teologici è una ricchezza ed è anche un banco di prova per la leadership interdenominazionale.
Alla stregua di ciò che Paolo dice dei conduttori di chiesa locale nelle Lettere pastorali, anche per la leadership interdenominazionale dovrebbe valere una verifica nella propria casa e famiglia di provenienza. Alla luce di questa verifica si scoprirebbe che, molto spesso, l'indicazione della divisione fra gli evangelici italiani come un ostacolo a percorsi identitari virtuosi e l’appello a una maggiore unità è un appello ipocrita in quanto proviene da leader non riconciliati e fuoriusciti dai propri contesti ecclesiali originari che ora si propongono in una veste molto diversa.

Conclusione
Abbiamo esaminato solo tre elementi, negativi, che sembrano giocare contro la possibilità di parlare positivamente e con orgoglio degli Evangelici d'Italia (lo stigma sulle radici non nazionali della loro esperienza di fede; l’insignificanza culturale e sociale; lo stato di realtà divisa).
Resta ancora lo svolgimento del compito grosso vero e proprio: chi sono gli Evangelici d'Italia e come rispondere a questa domanda? Prima di tutto è necessario dotarsi di strumenti adeguati per rilevare la loro reale presenza per poi valutarne l'importanza e comprenderne le istanze autentiche.
Un tentativo in tale direzione è la collana "Evangelici d'Italia" delle Edizioni GBU (www.edizionigbu.it) che prova ad aprire un percorso di rilevazione dal sapore quasi etnometodologico nella ricchissima esperienza di testimonianza degli evangelici; la collana ha un presupposto, naturalmente, vale a dire che esistono gli evangelici italiani e che sono ingiustamente mal compresi, non dai nostri osservatori esterni ma, forse, e in ultima istanza, da noi stessi evangelici che, pur sempre, e immancabilmente, siamo “Evangelici d'Italia”.
Giacomo Carlo Di Gaetano
DiRS–GBU