martedì 28 aprile 2015

A proposito di Giubileo


Leonardo de Chirico, Il Giubileo Speranza del terzo millennio, Italia per Cristo Editore, Roma 1999;
Corrado Grottoli, Il Giubileo. Il riposo e le istituzioni sabbatiche nella bibbia.
Verso la metà di marzo, l’attuale pontefice ha annunciato la celebrazione di un giubileo straordinario che anticiperà di 10 anni quello “regolare”. E’  quindi interessante richiamare all’attenzione del mondo evangelico due testi scritti da autori evangelici italiani che furono pubblicati 16 anni fa, nel 1999, proprio per dare un punto di vista evangelico sul giubileo del 2000, promosso da papa Woytila, che grazie ad un’amplificazione mediatica sconosciuta nei precedenti giubilei divenne un evento di portata mondiale.
Il testo di Leonardo De Chirico è molto breve ma incisivo e puntuale (88 pp.). E suddiviso in tre capitoli che trattano nell’ordine il significato biblico dell’istituzione giubilare in Levitico 25, la storia degli anni santi cattolici ed il significato odierno che il termine ha acquisito. L’autore analizza il passo del Levitico facendo notare che il Giubileo veterotestamentario nasce nel contesto specifico dell’Israele premonarchico caratterizzato dagli istituti del clan e della famiglia per i quali la terra era vitale, e che esprime concetti teologici basilari: è collegato alle idee di creazione e di provvidenza che ricordano che la terra appartiene a Dio, a quella di alleanza stipulata tra Dio e il suo popolo, al concetto che Dio ha diritto sulla terra ed infine a quello di espiazione, in quanto il giubileo cominciava con il giorno delle espiazioni. Ripreso più volte dai profeti, pare assente nel nuovo testamento, benché gli elementi teologici su cui poggia riemergano chiaramente nel nuovo patto. E’ il messia ad averlo realizzato nella sua totalità, ed alcune pratiche della chiesa primitiva, come la condivisione dei beni, lo rievocano.
L’istituzione cattolica degli anni santi nasce invece in pieno medioevo, nel 1300, con Bonifacio VIII e nel corso degli anni vede un intensificarsi della frequenza dei giubilei. E’ collegata alla pratica delle indulgenze, ottenute in forma plenaria durante pellegrinaggi presso le basiliche di Roma, e consiste nella proclamazione da parte del pontefice di un anno santo. Il significato che la chiesa cattolica dà a questa istituzione, ben diversa da quella del giubileo biblico, è pienamente coerente con quella caratteristica del cattolicesimo chiamata “cattolicità”, consistente nel saper inglobare in sé tendenze divergenti, eterogenee e persino opposte, ma comunque “ricapitolate” sotto l’unica effigie della chiesa romana. La critica dell’autore consiste proprio nel far notare che le offerte di perdono rivolte da Dio al mondo che il giubileo esprime, sono state realizzate e proposte in Cristo una volta per tutta e la chiesa può annunciarle e ricordarle, ma non può certo amministrarle decidendo quale anno sia di grazia e quale no, e incoraggiando pratiche pagane che nulla hanno a che vedere con i reali concetti biblici di perdono ed espiazione.
Il terzo capitolo costituisce la pars costruens de libro cercando di porsi la domanda di come sia attualizzabile questo importante concetto oggi. Cercando di evitare spiritualizzazioni, o letture solo socio-economiche l’autore vede un primo significato in un appello alla conversione dagli idoli al vero Dio. A questo si accompagnano possibili atti giubilari da tradursi in un’attenzione alla povertà, agli stili di vita, alla dignità del creato e delle persone, tenuti insieme da una fede decisa nel Dio del giubileo.
Il libro di Corrado Grottoli, condivide inevitabilmente diversi punti comuni, sia nelle analisi che nelle conclusioni, ma ha un taglio leggermente diverso. Più lungo e dettagliato nell’analisi dei testi biblici, consacra un’attenzione più ampia al concetto biblico di riposo. Suddiviso in 9 capitoli, presenta nei primi tre le tre istituzioni relative al riposo: il sabato, l’anno sabatico, e l’anno giubilare. Di ognuna analizza i testi biblici, e pone per il giubileo il problema interessante della sua storicità, negata da alcuni studiosi ma ritenuta plausibile per altri. Il capitolo IV è dedicato ai significati teologici, che nei due libri sono pressoché gli stessi (Grottoli aggiunge l’adorazione), e procede con gli aspetti morali – è questione soprattutto del rispetto della persona – ed escatologici. Come De Chirico l’autore rileva l’adempimento delle profezie messianiche nell’inaugurazione di una nuova era interamente dedita al Signore. Il capitolo VII presenta un’accurata parentesi di teologia sistematica dedicata al significato della legge oggi, distinta nei suoi aspetti di rituale, civile, morale per poter porre il problema di come evincere da essa principi anche di norme non più applicate o applicabili. L’autore condivide con diversi autori l’idea che l’istituto giubilare, non sarebbe applicabile letteralmente alla società occidentale oggi, mentre lo sarebbe il sabato che non è un istituto rivolto specificamente ad Israele. Nondimeno anno giubilare e giubileo hanno qualcosa da insegnare, ed il capitolo VIII è costituito da potenziali applicazioni sia delle diverse istituzioni sabbatiche. Anche qui i due autori si raggiungono, con proposte relative alle problematiche della povertà, degli stili di vita, e riferimenti concreti a situazioni quali l’azzeramento del debito dei paesi del terzo mondo. A conclusione, un capitolo che fa alcuni riferimenti al giubileo del 2000, ponendo problematiche analoghe a quel del libro di De Chirico, che per brevità non ripeto.

Due testi indubbiamente interessanti, scritti con cura, ma comprensibili da un pubblico ampio. Il primo leggermente più critico, con una preoccupazione evidente di “dire qualcosa di evangelico” rispetto ad un momento in cui i riflettori erano puntati su Roma, il secondo più vicino ad una teologia biblica e all’esegesi dell’antico testamento. Utili entrambi ad alimentare la riflessione evangelica rispetto ad un evento che, immagino, anche in questo anno 2015 avrà dimensioni importanti.

 Stefano Molino - DIRS GBU

domenica 19 aprile 2015

CALVINO E CASTELLIO




Calvino il “dittatore”.

La casa editrice Castelvecchi di Firenze negli ultimi anni ha mostrato un certo interesse per il mondo protestante, pubblicando, fra l’altro, alcuni scritti di Karl Barth e di Albert Schweitzer. Negli ultimi mesi ha iniziato a pubblicare una serie di biografie storiche scritte da uno dei maggiori specialisti degli inizi del XX secolo: lo scrittore ebraico Stefan Zweig. Zweig, prima dell’avvento del Nazismo, viveva nella Vienna post conflitto bellico, città piena di fermenti culturali. Nel 1934 si trovò costretto a fuggire e, qualche anno dopo , nel 1942 (anno della “soluzione finale), nel suo rifugio brasiliano si suicidò, come è tragicamente accaduto anche ad altri esponenti della cultura ebraica del secolo scorso. Tra le numerose opere, scritte con una prosa molto chiara e avvicente, vi è una breve biografia intitolata intitolata Castellio gegen Calvin oder Ein Gewissen gegen die Gewalt (Castellio contro Calvino una coscienza contro la forza), tradotto in italiano qualche mese fa.
Il testo, in cui si mostra come l’intellettuale ebreo si documentasse sugli argomenti che affrontava inzia con una prefazione che ha come scopo di spiegare il perché della scelta di “ricostruire” biograficamente le vicende che legarono questi due intellettuali riformati. Per Zweig il motivo è legato profondamente alla libertà di coscienza, all’uso del proprio libero pensiero ed alla violenza che ad esso in Occidente spesso è stata fatta. Il testo, scritto nel 1936 dall’A. ormai in esilio, probabilmente allude anche ai roghi che dei suoi testi, molto popolari nell’area di lingua tedesca, erano stato fatti dai Nazisti che lo vedevano come un esponente della cultura giudaica e che lo censurarono e ne vietarono la lettura a prescindere da una reale conoscenza dei contenuti.
Calvino, quindi, rappresenta lo spirito della censura delle coscienze, il tiranno delle stesse, mentre Castellio, “un moscerino contro un elefante” come egli stesso afferma, rappresenta lo spirito di tolleranza (di eredità erasmiana).
La narrazione inizia dall’arrivo di Calvino a Ginevra. Zweig mette in evidenza i pregi del riformatore francese, la sua erudizione, la sua dedicazione al lavoro di teologo, ma anche (e soprattutto) i suoi difetti: l’intolleranza sopra ogni cosa, ma anche la mania del mettere ordine nella coscienza altrui, l’idea di un governo della città guidato dalle autorità religiose e così via. Calvino riesce a dar ordine a Ginevra ed è esortato in tutto ciò da Farel, anche lui descritto come un violento riformatore, ma senza l’erudizione e la dedicazione di Calvino. Il racconto raggiunge il suo culmine quando si parla del caso Serveto, uno di quelli che ha suscitato più scalpore a proposito della Ginevra riformata.
L’intellettuale ebreo non lesina parole di critiche a Serveto, ambizioso, supponente, talvolta poco prudente nell’esposizione delle sue ed anche poco ordinato nelle sue credenze, ma, allo stesso tempo, ritiene che, nonostante i suoi difetti non aveva demeriti tali da essere sottoposto a tortura e al rogo. Per Zweig, al contrario di quanto affermano oggi diversi storici della Riforma, la colpa ultima della condanna di Serveto è di Calvino che, in seguito, ha cercato di coprire le tracce della sua colpevolezza, adducendo come motivazione il fatto di non far parte del Consiglio di Ginevra e di aver, addirittura, chiesto pietà per l’antitrinitario spagnolo.
Dopo il rogo di Serveto (comminato nella maniera più crudele consentita dall’epoca), le reazioni ci furono e alcuni dei consigli delle città cantonali non apprezzarono la decisione di Calvino, ritenendola un passo indietro rispetto alla libertà di coscienza che, nel movimento della Riforma, era stata invocata sin dall’inizio (si pensi a Lutero durante la Dieta di Worms). Ma a parte alcuni mugugni solo un uomo ebbe il coraggio di schierarsi contro Calvino, si trattava di Sebastiano Castellio, anche lui aveva aderito al Credo riformato, anche lui per un certo periodo si era rifugiato a Ginevra, dove, però, non aveva trovato il favore di Calvino né come predicatore (non gli fu mai assegnata una Chiesa), né come docente (pur essendo un valente conoscitore delle lingue bibliche). Rifugiatosi a Basilea, da lì Castellio sferra il suo attacco a Calvino, ritenendo che la condanna a morte per eresia non sia qualcosa che possa essere comminata dalla Chiesa o da chicchesia, ma che l’eresia vada combattuta con la ragione e la disputa.
Questa obiezione riceve attenzione da Calvino e dai suoi discepoli (anche Teodoro di Beza ed il suo ritratto non ne esce bene dal testo) che cercano dapprima di vietare la pubblicazione delle opere di Castellio e, in un secondo momento, non contenti, di denunciarlo come eretico perché non credeva nella dottrina della doppia predestinazione. La vittoria, come dice Zweig, pare arridere a Calvino, soprattutto nel momento in cui, Castellio, piuttosto cagionevole nella sua condizione fisica muore a soli 48 anni, ma, a lungo andare la vittoria momentanea di Calvino che riesce, in qualche modo, a “schiacciare” il nemico e le sue idee non darà i suoi frutti.
Gli scritti di Castellio saranno ripubblicati quasi un secolo dopo e saranno presi in grande considerazione soprattutto nei Paesi Bassi che, dopo il conflitto religioso tra arminiani e calvinisti, si avvicinerà agli ideali di Castellio proprio per ritrovare la pace religiosa che era mancata allo stato olandese. Pertanto il moscerino avrà ragione dell’elefante, soprattutto con l’avvento del libero pensiero.
Questa, basilarmente la tesi di Zweig in un testo scorrevole, dotato di una prosa vigorosa e ben scritto. Ovviamente al lettore vanno ricordate alcune cose fondamentale: si tratta di una biografia scritta con tratti personali. A nostro parere, i personaggi (soprattutto Calvino), sono sin troppo caricati. Ne viene fuori il ritratto di un Calvino tirannico, ossessionato dal potere, turbato da qualsiasi dissidenza, vendicativo nei confronti dei nemici. Castellio è l’eroe di Zweig, nato e morto povero, reietto nonostante sia della stessa caratura intellettuale del suo avversario, mite e non propenso alla discussione ed alla condanna. Sicuramente dal punto di vista storico, le cose sono andate un po’ diversamente (l’appoggio che Castellio ebbe da Melantone e che fu determinante per lo stesso, viene solo accennato ad un certo punto del testo) e il racconto risente profondamente del tempo in cui è stato scritto e dell’idea di Zweig di condannare qualsiasi forma di intolleranza nei confronti del pensiero. Allo stesso tempo, gli scritti parlano da sè: in alcune citazioni Calvino appare chiaramente livoroso e piuttosto duro nei suoi giudizi e, per questo, da buoni evangelici che non hanno santi da venerare, dobbiamo riconoscere i limiti (intellettuali e di carattere) di uno dei più importanti riformatori. La lettura del testo di Zweig è un buon antidoto per un evangelico e non santificare il proprio passato, ma a riconoscere, in uno stato di perenne pentimento, i propri limiti.

                                                                                              Valerio Bernardi - DIRS GBU


giovedì 9 aprile 2015

Dietrich Bonhoeffer: vita = verità




La mattina del 9 aprile 1945, esattamente 70 anni fa, un giovane uomo avanza nudo verso la forca sul prato inaridito dal freddo di un inverno ancora non finito del campo di concentramento di Flossenbürg. Mentre muore impiccato si sentono ormai vicini i bombardamenti alleati su Berlino, il Reich sta capitolando, una diabolica pagina della storia umana si sta chiudendo. E in questa pagina il nome di quest’uomo è scritto tra quelli degli eroi: Dietrich Bonhoeffer.
Ha soltanto 39 anni ma ha già detto e fatto a sufficienza per dare una svolta potente a tutto il pensiero cristiano che sarebbe seguito.
Di lui voglio ricordare una considerazione inattuale che però stava formulando proprio nell’ultimo periodo della sua vita, quella della prigionia a Tegel, da dove il 18 novembre del ’43 comunica di essersi dedicato alla redazione di questo saggio.
Un breve saggio rimasto incompiuto dal titolo “Che cosa significa dire la verità?” recuperato tra le sue carte del carcere. Cosa significa dire la verità? Cominciamo subito col dire che il saggio affronta il problema evitando la questione di principio, l’impostazione teoretica, ontologica, anzi dichiarando esplicitamente che la verità inerisce direttamente la dimensione pratica dell’uomo. La verità non è un “in sé”, bensì immediatamente parola, azione.
Dire la verità significa rispettare lo stato del mondo nei confronti di Dio, cioè non ignorare prima di tutto che esso vive tutt’ora nella separazione e che la separazione porta con sé la vergogna, il pudore. Una spudorata verità ha solo l’apparenza della verità, ne è solo “un morto simulacro”, perché mente sull’essenziale, sul fatto cioè che esista un limite tra un uomo e un altro. Mente su ciò il senza limite, colui che odia il creato di Dio, e mentendo intende distruggerlo, per costruire sulle macerie di esso un’altra realtà, a suo uso e consumo.
“Colui che pretende di “dire la verità” dappertutto, in ogni momento e a chiunque, è un cinico che esibisce soltanto un morto simulacro della verità. Circondandosi dell’aureola di fanatico della verità che non può aver riguardi per le debolezze umane, costui distrugge la verità vivente tra gli uomini. Egli offende il pudore, profana il mistero, viola la fiducia, tradisce la comunità in cui vive, e sorride con arroganza sulle rovine che ha causato e sulla debolezza umana che “non sopporta la verità”. Egli dice che la verità è distruttiva ed esige delle vittime, e si sente come un dio al di sopra delle deboli creature, ma non sa di essere al servizio di Satana.”
Dicevo, considerazione inattuale, questa sul dire la verità, in quanto parla di pudore, una parola che suscita grasse risate in questo tempo che ha nella spudoratezza la propria cifra.
Il mondo della rete, ad esempio, è un florilegio di verità svelate, tutte incredibilmente destabilizzanti, tutte denunciate e urlate, e tutte ridotte a pettegolezzo senza costrutto. Come dice il principio della rana bollita di Noam Chomski, a forza di conoscere foschi presagi sul nostro futuro ci stiamo abituando ad accoglierlo passivamente, questo futuro. Se il XX secolo si è segnalato come il tempo della fine di tutte le verità, il XXI secolo è quello della moltiplicazione delle verità, se il Novecento è stato il secolo della verità messa a tacere, il Duemila è quello della verità chiacchierata.
A che serve una verità ridotta a chiacchiera?
A chi serve, bisognerebbe forse chiedersi?
Verità trasformate in slogan che non hanno come obiettivo di rispettare la realtà così come essa è, scissa e contraddittoria, ma intendono costruirne un’altra, di realtà, semplificata, senza contraddizioni. “La verità di Dio si è incarnata nel mondo e vive nella realtà, mentre la verità di Satana è la morte di tutto il reale.”
Queste riflessioni, forse, avevano per Bonhoeffer un’urgenza molto più concreta di quanto possa apparire dall’argomentare teoretico. Probabilmente intanto che scriveva queste pagine era anche sotto torture perché rivelasse i nomi di coloro che facevano parte dell’associazione che poi tentò l’assassinio di Hitler del 1944.
Non era che un pastore, un accademico, un uomo di lettere, un rammollito, pensava il Reich, che lo affidò, come gli altri arrestati di quell’operazione, all’ufficiale Manfred Roeder, noto proprio per la crudeltà dei suoi metodi. E Bonhoeffer era l’anello debole della catena, e il primo che gli fu affidato, tra i cospiratori. Non si sa nulla di come andò con il giovane pastore, ma si sa qualcosa di come andarono gli altri interrogatori, e si conoscono i metodi di questo ufficiale gentiluomo.
Per mesi le sorti dell’organizzazione clandestina dipesero dalla resistenza di Bonhoeffer. Intanto lui scriveva le lettere raccolte poi in “Resistenza e resa” da cui nulla traspariva. Rifletteva su cose come il dire la verità. Faceva forse, anche un bilancio delle decisioni prese, lui che sapeva di quel progetto di assassinio (che poi fallì), che aveva aiutato famiglie di ebrei a fuggire clandestinamente dalla Germania. Aveva lottato contro il sistema del Reich con ogni mezzo illecito, oltre che con quelli leciti.
“Se sali sul treno sbagliato non serve a nulla correre lungo il corridoio in direzione opposta”