lunedì 25 maggio 2015

Educarsi nella pace



Antonio Vigilante, L’educazione è pace. Scritti per una pedagogia nonviolenta, Edizioni del Rosone, Foggia, p. 228, € 16,00
Recensione di Daniele Mangiola

Quando si parla di buona educazione, alcuni principi sembrano essere proprio la base comune, universale, dalla quale partire. Sembra, ad esempio, che per essere un buon educatore sia indiscutibile presupposto il fatto che non si possa anche essere amico dell’educando. Un genitore non può essere amico dei propri figli. Sembra altrettanto accertato anche il fatto che per educare bene bisogni saper
mantenere una adeguata distanza emotiva. E ciò perché alla fine la parola pedagogica mantenga il giusto mordente presso colui che deve essere educato. Sembra ovvio che l’educazione veda in campo due soggetti dei quali l’uno disponga di una conoscenza, di una modalità di esistenza, da offrire all’altro che ne sia al momento sprovvisto o comunque in uno stato di non completa padronanza.
Quello che sembra assolutamente ovvio è che la relazione educativa sia una relazione “asimmetrica”, come la definisce Antonio Vigilante nel suo “L’educazione è pace”, per Edizioni del Rosone, del 2014. Asimmetrica nel senso che una delle due parti assume il ruolo di guida, modello al quale l’altro deve tendere, ubbidire, sottomettersi. E se l’educazione comporta la sottomissione al modello proposto, anche al costo di reprimere la propria naturale inclinazione, se comporta l’essere condotti, se occorre, anche con una dose di coazione, se implica premi e punizioni, incentivi e disincentivi, allora bisogna dirlo, l’educazione è competizione e lotta.
L’intento del testo di Vigilante è porre in questione tutto quanto fin qui detto come ovvio: “L’educazione ha a che fare, in modo essenziale, con la pace. Non nel senso che la pace sia il fine o uno dei fini dell’educazione, ma in un altro, più radicale: educare vuol dire fare in modo che accadano, qui ed ora, situazioni di pace. La pace non è uno scopo dell’educazione, ma è tutt’uno con l’educazione stessa. Se c’è pace, c’è educazione. Ogni volta che entra la pace nella quotidianità di una persona, si può dire che quella persona si sta educando” (p. 15)
Nel momento in cui una persona educa se stessa cade il modello tradizionale in cui l’educazione avviene per il tramite di un educatore e anzi si afferma che soltanto l’individuo ha il diritto di modellare, trasformare eventualmente, se stesso; cade la tradizionale distinzione di ruoli, il confitto diventa confronto, l’insegnamento diventa dialogo. Si sfumano le posizioni perché colui che educa, anch’esso, educa se stesso, nell’atto di educare.
Non si tratta di un testo sull’educazione alla pace, precisa Vigilante, in quanto la pace non può essere un obiettivo (tra i tanti) ma è tutt’uno con l’educazione stessa. Ed è questo il motivo per cui nei testi di grandi maestri della nonviolenza, come Gandhi, Aldo Capitini, don Lorenzo Milani, che sono stati anche grandi educatori, non c’è traccia di un’educazione alla pace, perché per essi è ovvio che la pace è il presupposto stesso dell’educazione. Ed è importante considerare la dimensione politica perché solo dove c’è pace ci può essere politica, essendo falsa la celebre affermazione di Von Clausewitz, in quanto la guerra non è affatto la continuazione della politica, ne è, semmai, la fine, come è evidente nei regimi totalitari, dove ogni dialogo, ogni confronto politico è ridotto al silenzio.
Il testo è una raccolta di saggi precedentemente pubblicati, alcuni dei quali tra le pagine di Educazione Democratica, rivista diretta dallo stesso autore. Attingendo alla propria esperienza di insegnante, Vigilante fa abbondante riferimento alla situazione educativa scolastica, analizza il sistema scuola individuandone alcune criticità e avanzando alcune proposte volte a potenziarne l’obiettivo pedagogico. E certo la scuola è il luogo simbolo della relazione educativa, dove educatore e educando si incontrano rivestendo esclusivamente i rispettivi ruoli, ma l’autore trascende dalla situazione scolastica per andare alla radice del problema. Perché prima ancora che del modello pedagogico di riferimento, quello che conta è il modo della relazione stessa, del qui ed ora del rapporto che si instaura.
Il rischio della violenza è sempre insito nella relazione educativa, magari in forme sublimate, raffinate, evitando la violenza fisica, ma facendo ricorso al ricatto psicologico, a tutte le forme di apprezzamento e svalutazione, spingendo alla competizione, e comunque ogni volta che si disinteressa del qui ed ora della persona per concentrarsi sull’immagine ideale a cui tendere, “una doppia violenza. Da una parte, l'educando è vittima di violenza perché non può esplorarsi liberamente, ma è chiamato a conformarsi ad un modello pensato da altri; dall'altra, l'educatore è vittima di violenza perché è costretto a fissarsi nel ruolo del modello educativo, e per farlo deve nascondere le sue fragilità” (p. 22). Al contrario, in una “relazione simmetrica” ciascuno è liberamente se stesso e il cammino verso la conoscenza si fa insieme, nessuno è fissato in un sapere immobile. L’educazione si fa pace quando la nozione diventa esperienza e l’esperienza diventa intelligenza. A queste riflessioni sono dedicati il primo saggio, Educazione è pace, e il terzo, Nonviolenza ed educazione. In particolare nel terzo si indica il valore di accogliere le istanze del pensiero nonviolento nell’educazione, facendo ampio riferimento all’opera di Aldo Capitini e del suo amico e discepolo Danilo Dolci.
La difficoltà di educare in una società che promuove l’imperativo del desiderio, la violenza della seduzione e il miraggio del piacere è oggetto del secondo saggio, Educare nella società delle merci. E La situazione educativa, propone di andare oltre “il paradigma dell’imbuto”, secondo il quale l’educando, il figlio sono visti come soggetti da modellare selezionando le qualità individuali da promuovere e quelle da epurare ai fini di una corretta educazione, secondo la quale “i no aiutano a crescere”, forgiano il carattere, selezionano le buone qualità e disincentivano gli innati “vizi” della personalità. Un paradigma che si fonda sul fondamentale disconoscimento di quello che il bambino è al presente in funzione di un progetto futuro di persona adulta. Così la naturale creatività e fisicità dell’infanzia vengono imbrigliate in nome di un ideale di saggezza intesa come posatezza, disciplina, capacità di sacrificio. Una situazione educativa fondata sulla pace non può, al contrario, ledere il “potere” di ciascuno, inteso come la coscienza di poter fare, perché quando il potere diventa unilaterale allora si muta in predominio dell’uno sull’altro.
E, contrariamente al luogo comune secondo il quale nel processo educativo è necessario instaurare una certa distanza emotiva tra educatore ed educando, invece un’educazione che è pace non può prescindere dalla spiritualità delle persone implicate nella relazione. Una spiritualità che non intende interferire con le credenze religiose ma attinge al profondo della persona. Interessante l’indicazione al “vedere l’altro dell’altro”. Riprendendo il celebre passo dei miserabili in cui il vescovo protegge Valjean dai gendarmi regalandogli i candelabri che aveva rubato, Vigilante si rifà al Vangelo: “il vescovo ha fatto quello che dovrebbe fare ogni cristiano: ha messo in pratica il Vangelo. «A chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da’ a chiunque ti chiede; e a chi prende del tuo, non richiederlo. Ciò che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Luca, 6, 29-31)” (p.66). Il vescovo ha permesso a Valjean di aprirsi al bene e di uscire dal circolo vizioso del male. Per contro, secondo l’autore, il cristianesimo avrebbe prodotto una seconda interpretazione del passo di Luca, con la morale di Paolo (fa riferimento a Romani 12,19-20, al lasciare la vendetta al Signore). Se Paolo consiglia di astenersi dalla vendetta, di far del bene ai nemici per radunare dei carboni accesi sul loro capo, dice l’autore, il suo intento non è affatto il bene del nemico, il quale è lasciato a se stesso e alle conseguenze del proprio male (che arriveranno). Ma probabilmente questa analisi sottovaluta la situazione politica in cui si muovevano i cristiani a cui Paolo parlava e, forse, potrebbe considerare la metafora dei carboni accesi in senso pedagogico, come appunto di colui che, ricevuto un bene, è messo in crisi da questo al punto da riconsiderare il circolo vizioso in cui è intrappolato. La contrapposizione Gesù-Paolo è molto diffusa e non considera abbastanza, forse, il fatto storico che il Gesù di cui parliamo di fatto è il racconto delle stesse comunità paoline, fissato per iscritto soltanto successivamente al sorgere delle comunità ammaestrate da Paolo.
Interessante è ancora la questione dell’identità tra educazione e discorso educativo, per nulla considerata né dalla scuola né dall’educazione familiare tradizionale, secondo la quale è più importante l’obiettivo, la morale, la nozione, l’oggetto della conoscenza, che la modalità stessa in cui questa viene trasmessa. Al contrario, invece, ben oltre i contenuti, è proprio la forma stessa della situazione educativa ad essere educazione perché è proprio attraverso essa che si esprime il progetto di vita, il progetto politico che si ha in quanto educatori: che mondo immaginiamo? Che tipo di rapporti interpersonali? Fondati su che tipo di valori?
Molti altri argomenti interessanti sono affrontati, ad esempio nel saggio Abbiamo il diritto di educare?, dedicato al pensiero di Tolstoj e ancora in Educazione e violenza in Alice Miller, che meriterebbe una maggiore attenzione. Ci sarebbe anche qualcosa da dire sulla solita critica a Dio dell’AT, espressione di una morale punitiva e repressiva, che non tien conto della progressiva rivelazione del carattere benevolo di Dio come anche delle continue manifestazioni di cura e protezione nei confronti di Israele e soprattutto ostinatamente insiste nel contrapporre Antico e Nuovo senza volerli vedere come aspetti diversi di un unico discorso.
Gli ultimi due saggi aprono poi una riflessione sulla cultura orientale. Educazione e meditazione, avanza la proposta di far entrare le tecniche di meditazione nei programmi pedagogici. S’intende, ovviamente, che la proposta di Vigilante riguarda una meditazione esclusivamente laica, estrapolandola dal contesto religioso in cui è sorta. Una meditazione che educa l’individuo alla coscienza di sé, alla concentrazione, al pensiero sul presente. Infine l’ampio saggio La bellezza oltre la mente, dedicato all’insegnamento pedagogico di Krishnamurti.
Essere educatori e genitori cristiani ci espone alla tentazione costante di riassumere la rivelazione biblica in un corpus di precetti morali divini, dunque inderogabili. Ci sentiamo addosso questa responsabilità e questa missione, che la volontà di Dio sia rispettata. È necessariamente così? Abbiamo il dovere di essere totalmente concentrati su un modello di virtù, di stigmatizzare l’errore, tolleranti, certo, compassionevoli, ma determinati alla meta? È così che Dio si è relazionato a noi? E ancora, abbiamo davvero una responsabilità spirituale così forte nei loro confronti? Di fronte a Dio, potrebbe esserci la possibilità di considerare i nostri allievi, i nostri figli, semplicemente come nostri fratelli?
Un’immagine: Gesù e la prostituta. Che tipo di gesto pedagogico è il suo che 1) ridimensiona il moralismo della folla che voleva lapidarla 2) non trattiene la donna, dispersa la gente, per ottenere da lei ravvedimento 3) le dice “neanche io ti condanno”? Sembra proprio che l’obiettivo primario di Gesù sia stato quello di mettere pace nel cuore dalla donna, non quello di correggerla. Di permetterle, nella pace, di educare se stessa.

lunedì 11 maggio 2015

Una politica intrisa di emozioni




Una politica intrisa di emozioni

Il pensiero politico liberale americano è stato sicuramente uno dei più fecondi negli ultimi trent’anni per quanto riguarda proposte concernenti il pensiero politico, la discussione di alcuni dei temi caldi e, bisogna ammetterlo, anche gli europei guardano sempre più ai pensatori di oltre Atlantico come a possibili modelli che possano essere fonte di ispirazione. Tutto è sicuramente iniziato con l’opera di Rawls che con Una teoria della giustizia, ha riproposto, in chiave contemporanea, il contrattualismo come base per le società e come possibile conciliatore delle questioni sociali (la disuguaglianza tra gli uomini), riproponendolo come modello politico da adottare. Un rimprovero che spesso si è fatto alla proposta rawlsiana (anche da parte di pensatori evangelici come Nicholas Wolterstorff) è di essere troppo “freddo”, troppo razionale, sin troppo analitico e di non considerare problemi come quello della giustizia primaria (è ciò che gli viene rimproverato da Wolterstorff)  o di non tenere conto di come l’uomo politico non agisce soltanto attraverso la propria ragione, ma mette in gioco anche le sue emozioni. Tra i “critici” di Rawls su questo versante l’esponente più importante è senza dubbio Martha Nussbaum che ha dedicato la sua ultima opera (una delle più ampio respiro e più complesse), proprio al problema delle emozioni nella sfera pubblica e politica, intitolandola Politcal Emotions. Why Love Matters for Justice (in it. Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia), pubblicato lo scorso anno in Italia dal Mulino.
La Nussbaum pone subito il problema ad inizio del testo. Il modello liberal di azione nella sfera pubblica è stato visto come troppo razionale e non ha tenuto conto di come le emozioni possano influire sul nostro agire non solo nel privato, ma anche nel pubblico. Per questo motivo la ricerca della filosofa americana è dedicata a cercare le fondamenta di come possano essere usate, anche positivamente, le emozioni nella sfera pubblica. Il testo è, pertanto, diviso in tre parti. Nella prima parte si cerca di tracciare una storia del pensiero che sia utile per fondare una teoria delle emozioni in politica, una seconda parte discute quali possono essere le risorse, gli obiettivi e i problemi che pongono le emozioni nella sfera dell’attività umana ed una terza parte è dedicata all’analisi delle emozioni pubbliche.
La prima parte pone le basi della discussione partendo dalla storia del pensiero, inteso nel senso più largo possibile. Il punto di partenza della studiosa americana è il XVIII secolo, quello dei Lumi, dove la razionalità sembra regnare sovrana nelle proposte concernenti l’agire politico. Gli esempi presi sono tratti da Mozart, Rousseau e Herder. Al contrario del paradigma di Locke e Montesquieu (già criticato in altre opere dall’A.) questi pensatori (e musicisti) tengono conto delle emozioni e dei sentimenti e permettono la costruzione di un agire politico che vada al di là del semplice calcolo razionale (introdotto nella politica per la prima volta, in verità, da Hobbes). Proprio partendo da questi autori è stata possibile la riflessione che ha portato, ad esempio, a vedere come ogni costruzione politica (comunità o stato che sia) ha bisogno della fondazione di una religione dell’umanità, non intesa come spazio del sacro e dell’incontro con Dio, quanto come infondente un sentimento comune a tutti coloro che appartengono ad una comunità politica (la religione intesa come una unione tra persone della stessa società, nel senso latino del termine). La religione dell’umanità la Nussabaum la vede ben evidenziata in autori come Comte e J.S. Mill, preferendo quest’ultimo al primo un po’ troppo dogmatico nelle sue convinzioni sulla scienza e in R. Tagore (il coniatore del termine). L’esempio preso in esame è il poema che diverrà l’inno nazionale dell’India che infonde sentimenti di solidarietà e di attrazione verso la nazione.
Terminata questa prima parte la filosofa americana, passa ad un’analisi di quelli che devono essere gli obiettivi e di quelle che sono le risorse e i problemi che si hanno davanti quando si vive in una società e quando ogni individuo è anche preso dalle proprie emozioni. La società cui bisogna aspirare deve avere come propri valori l’uguaglianza (politica e civile), l’inclusione (nessuno deve essere escluso dal poter usufruire pienamente dei propri diritti civili) e la distribuzione (che non deve portare a grandi differenze e deve avere come suo obiettivo quello di poter far sviluppare ad ognuno le proprie capacità). Tutto questo non può essere ottenuto semplicemente con la razionalità, ma concetti del genere possono scaturire solo dalla compassione, da quel sentimento di simpatia (o empatia, la filosofa americana non fa una chiara distinzione tra le due come i fenomenologi e gli psicologi continentali) che può renderci una vera comunità umana in cui si possono avere momenti di solidarietà. Ovviamente tutto questo deve essere coltivato e bisogna anche combattere quelli che possono essere i sentimenti negativi come l’impotenza, il narcisismo e la paura di essere contaminato dagli altri.
Sulla base di questi sentimenti individuali, nella terza parte si “costruiscono le emozioni pubbliche, quelle che dovrebbero caratterizzare una società ottimale. Si parte del patriottismo. Per la Nussbaum, il patriottismo deve esistere e deve avere anche un potenziale critico che possa non farlo sfociare in mero nazionalismo e razzismo. Il patriottismo va insegnato e la società va educata ad esso. Esempi di educazione patriottica sono i grandi discorsi dei politici che hanno cercato di colpire soprattutto i sentimenti della popolazione di cui erano responsabili. Gli esempi presi in esame in questo capitolo (che era già stato pubblicato in una rivista specialistica) sono quelli di Lincoln, F. D. Roosevelt, Nehru che, con i loro discorsi hanno saputo colpire le emozioni delle popolazioni. Per comprendere come le emozioni possano coinvolgere la società, l’A. ritorna anche a parlare della civiltà greca, del teatro ad Atene, che serviva anche per poter formare una mentalità sociale agli abitanti della città e mostra alla fine come l’Amore conti per la giustizia che altrimenti non potrebbe essere percepita come tale dagli uomini.
Il libro è ampio, ben scritto, con un discorso in sè coerente e realistico in diversi dei suoi aspetti. Gli esempi presi in esame sono sempre validi e servono non solo a creare una società nazionale, ma anche una globale. La capacità della Nussbaum è anche quella di non guardare solo alla cultura occidentale, ma di avere uno sguardo anche verso culture “altre” come quella indiana, anch’essa oggi una democrazia. La proposta è interessante ed alcuni degli spunti assolutamente validi. Rimangono alcuni dubbi che hanno a che fare con l’ottimismo sulle capacità umane e sulla possibilità (un po’ riprendendo l’intellettualismo etico dei grandi pensatori greci) di educare le persone a poter sfruttare positivamente le proprie emozioni. Il progetto è interessante e, forse, merita di essere letto proprio per le sue suggestioni che cercano di agire su situazioni concrete, risolvendo problemi concreti grazie ad un quadro teorico, diverso da quello delle grandi ideologie del XIX-XX secolo, ma che forse ben si adatta al periodo in cui viviamo.

                                                                                                           Valerio Bernardi – DIRS GBU

lunedì 4 maggio 2015

Adulti e bambini: due mondi in conflitto?



Didier Pleux, De l’enfant roi à l’enfant tyran, La Flèche, Odile Jacob, 2014, pp. 287, € 8,90
Recensione di Daniele Mangiola

La prima volta che ho sentito parlare di “bambino tiranno” è stato durante una conferenza sulla paternità tenuta da un prelato. È una situazione sempre più frequente, quella di un’intera famiglia tenuta sotto scacco dalle pretese e intemperanze di un bimbetto di 3, 5, 7 anni. Adulti disfatti e smarriti, incapaci di contenere l’esplosività dei pargoli, oppressi dalla perdita della propria libertà a causa delle continue richieste di piccoletti di meno di due lustri d’età. Cosa sta accadendo?
Didier Pleux è uno psicologo clinico, direttore dell’Institut français de thérapie cognitive. Autore di numerosi saggi. Un esperto che si occupa nella propria quotidiana pratica clinica appunto di aiutare famiglie sottomesse da bambini tirannici. Aiutarle a ritrovare una normalità familiare, aiutarle a ridefinire i propri equilibri interni attraverso una riappropriazione dell’autorità parentale.
La cosa che colpisce del libro di Didier Pleux è l’atmosfera che si respira. C’è una battaglia in corso, tra mondo dell’infanzia e mondo degli adulti. Il bambino è apparentemente un essere fragile, innocuo, debole, ma si tratta di un’immagine ingannevole, creata ad arte dal bambino stesso e con l’obiettivo specifico di sconfiggere le resistenze dell’adulto.
A seconda dei casi si fa passare per vittima o al contrario mette paura agli adulti, inganna i genitori oppure li seduce. E tutto questo in modo cosciente, facendo leva sull’apparenza di vulnerabilità del suo infantile aspetto sotto il quale si cela invece un fine e spietato stratega. Un bambino che sa utilizzare molto bene la dialettica dando l’impressione di intelligenza precoce, ma, rivela Pleux, è solo un’impressione che inevitabilmente si ridimensiona ad un veloce test psico-attitudinale: si tratta di bambini normodotati, per nulla eccezionali.
Clinico stimato e scrittore di successo, grazie anche questa originale formula dell’”enfant tyran”. I suoi libri si vendono e si ristampano, in Francia e all’estero, come in Italia, dove il testo qui presentato è edito col titolo “In famiglia comando io”. Fare lo scrittore è un mestiere ingrato di questi tempi. Tenersi stretti i lettori, crearsi un seguito di fedeli, è una cosa faticosa, che implica un certo savoir faire. Gli slogan, le terminologie ad effetto, le tecniche pubblicitarie, sono fondamentali. Così, visto che l’espressione “enfant tyran” funziona, la devi far girare il più possibile, e dunque non ci sono soltanto i bambini tutti tiranni, ma anche quelli parzialmente tiranni, quelli che lo sono soltanto in qualche aspetto della loro vita “dans certaines domaines de la vie familiale” (p. 58)
La sua tesi di fondo può essere riassunta come segue: la psicologia e la pedagogia, con tutta l’attenzione posta all’interiorità del bambino, hanno sicuramente dato un grande contributo alla presa di coscienza rispetto ai diritti del bambino in quanto persona, al suo benessere psicofisico, all’importanza della dimensione dell’amore nella relazione adulto-bambino. Però l’ha resa una cosa troppo tecnica, derubando il genitore della propria naturale competenza, della sicurezza nel proprio istinto genitoriale.
Troppo preoccupato a non creare traumi, il genitore non sa più educare, generando un vuoto nella relazione con il figlio, che, davanti a questa tabula rasa, approfitta per accrescere il proprio ego senza incontrare ostacoli e limitazioni di alcun genere. E diventa tirannico.
Il bambino tiranno non vive felice del proprio stato, è costantemente insoddisfatto, totalmente dipendente dalle soddisfazioni immediate che ricerca continuamente, utilizzando senza scrupoli gli altri componenti della famiglia per il proprio soddisfacimento. È invece necessario che il bambino da subito, dai primissimi mesi di vita, impari a conoscere e gestire la frustrazione, il non-soddisfacimento immediato, ed è compito del genitore offrire questa disciplina che contrasta l’istintivo carattere tirannico.
Didier Pleux specifica che l’”enfant tyran” non è semplicemente un bambino viziato, ma è una condizione specifica e ben riconoscibile che si manifesta prestissimo nella vita del bimbo. Non è chiaro però se sia innata o risultato della mancanza di educazione, se sia una condizione potenziale di tutti i bambini o soltanto di alcuni. Quello che è chiaro è che egli la tratta come una vera e propria patologia, arrivando a paragoni e considerazioni di dubbio gusto, come nel confronto tra “enfant tyran” e “handicapé”: “nous n’aurions pas l’idée de demander à un enfant paralytique de marcher et nous exigeons que l’enfant tyran abdique sur un mot!” (p.68).
Proverò a fare due ordini di considerazioni al testo di Didier Pleux, osserverò alcune questioni di metodo e tenterò alcune riflessioni teologiche.
Non si tratta soltanto del classico manuale sull’educazione. Sebbene la parte “manualistica”, ivi inclusi i test di verifica della propria situazione familiare, della tirannia in potenza o in atto del proprio figlio, sia molto ampia e sviluppata, la terza parte del libro, i capitoli 8, 9, 10 sono dedicati all’approccio teoretico alla questione. In queste pagine, che pur non dimenticano di rimanere al livello della divulgazione, vengono esposte le basi teoriche del lavoro di Didier Pleux, ma la parte analitica più ampia è dedicata alla critica del lavoro di Françoise Dolto.
Non è certo qui il luogo per avanzare delle critiche alle teorie dell’autore a partire da teorie diverse e opposte. E se un povero studioso riesce a trovare la chiave giusta per fare successo nello spietato mondo dell’editoria, bisogna riconoscergli merito. Le posizioni educative sono tante e diverse , però è significativo osservare il suo modo di interagire con le teorie “avversarie”.
Pleux, con grande generosità, concede alle scienza pedagogiche, il merito di essere state utili per un approccio efficace alle situazioni patologiche, ma, per quel che riguarda l’educazione normale, hanno creato molti danni. Hanno diffuso il pregiudizio che le imposizioni, la disciplina e le frustrazioni siano le cause dell’insorgere di comportamenti disturbati e patologici, che le psicopatologie in età adulta abbiano invariabilmente la propria origine nelle violenze subite da bambini. Questo pregiudizio ha generato una costante preoccupazione nelle nuove generazioni di genitori i quali, per paura di procurare ferite allevano il bambino in un ambiente senza disciplina, iperprotetto e costantemente soddisfatto. Che però è, a suo dire, l’assenza dell’educazione, l’habitat ideale perché l’io del bimbo cresca nel “délire de toutepuissance” (p. 96) generando comportamenti tirannici. Poche citazioni da un testo di Alice Miller, a parte la Dolto e qualche seguace della sua scuola, ma sempre decontestualizzate, e usate per metterne in risalto l’estremismo libertario. Riassunte in modo grossolano e ridicolizzate.
È poi vero, come lamenta l’autore, che in questi difensori dell’infanzia si ritroverebbe un rapporto immediato e inevitabile tra educazione repressiva e insorgenza di patologie e nevrosi nel bambino e nel giovane? Sta tutto qui il messaggio di queste pedagogie? Mette le mani avanti, lo psicologo, sapendo di poter essere accusato, in quanto comportamentista, di una lettura troppo rigida di queste altre pedagogie (p.225). E ha ragione. Sembra infatti che egli non abbia alcun sospetto della questione fondamentale posta da gente come Maria Montessori, Janusz Korczak, Wilhelm Reich, Margareth Mead, Françoise Dolto. Al di là delle differenti teorie, al di là delle possibili patologie generate da un educazione repressiva, questi autori hanno osato proporre una visione diversa di cosa sia il bambino in quanto persona. Hanno messo in discussione il presupposto tradizionale che il bambino sia un mezzo-essere, che il suo essere completo sarà pienamente raggiunto con l’età adulta e l’educazione.
E dunque un’educazione, quali che siano i suoi metodi, deve rispettare il bambino in quanto tale, non usarlo come un fine in vista della formazione del futuro adulto. Ecco, questa parte sembra essere completamente assente dalla prospettiva speculativa di Didier Pleux. Anzi, sembra proprio non averne neanche il sospetto, visto che, nelle lunghe pagine che dedica all’approccio teorico del suo lavoro, non se ne trova traccia, neanche in senso critico. La sua visione del bambino è ferma a Jean-Jacques Rousseau, alle cui citazioni ricorre costantemente per tutto il libro.
Provando a gettare uno sguardo teologico sul testo in questione sorgono due interrogativi, legati all’atmosfera di guerriglia costante che si respira in tutto il libro. A partire dalle parole di Gesù che dice di lasciare che i bambini vadano a Lui, che ci incita a diventare come loro per aver accesso al regno dei cieli, dalle parole di Paolo che dice che l’amore crede ogni cosa, è possibile per un genitore cristiano educare un figlio attraverso il metodo della guerriglia? È possibile diffidare costantemente del suo istinto di bambino? Quale che sia il metodo educativo, repressivo o libertario, può mai un’educazione cristiana essere qualcosa di diverso da un gesto di amore e di fiducia?
Non si può fare a meno di notare un diffuso bisogno, oggi, di autoritarismo in ambito pedagogico. Negli ultimi anni l’editoria di settore registra una quantità di titoli significativi in questa direzione. Una tesi di fondo comune è la seguente. Lo sbandamento libertario del ’68 ha creato una generazione di genitori insicuri e deboli, incapaci di imporre la propria presenza normativa ai bambini che così crescono senza parametri etici di riferimento. Senza tornare al classico “ceffone”, c’è però bisogno di recuperare una sana disciplina. Sembra proprio un discorso sensato. Attraente, soprattutto per chi, come un cristiano, creda ancora in un’etica e in cose come i “valori”. In realtà è la tentazione di quelli che Francis Schaeffer definiva “cristiani nostalgici”. Quei cristiani che identificano la volontà di Dio con l’etica “perbene”, che non hanno saputo riconoscere nel discorso cristiano, per dirla con parole di Bonhoeffer, la fine di ogni etica umana. Educazione cristiana e buona educazione borghese non coincidono.
Pur non volendo mettere qui in questione l’ideologia reazionaria che sottende al discorso di Didier Pleux e al suo “enfant tyran”, rimane un’impressione che è ben riassunta da un anomimo recensore sul web, di questo testo: un “livre triste et allarmiste”.