lunedì 26 gennaio 2015

Canto d'amore di un bimbo di 57 anni



Grossman D., Applausi a scena vuota, Mondadori, Milano, 2014, pp. 357, € 15,00
Recensione di: Daniele Mangiola

A sentir parlare noi, la nostra cultura patriarcale vecchia di migliaia di anni, con il suo culto della forza e della violenza, così come si sarebbe imposta soprattutto a partire dall’evoluzione della religione babilonese – per seguire la affascinante tesi di Walter Wink – parrebbe che la vera vita sia quella adulta, anzi, quella dell’uomo adulto (che già la donna adulta è più che altro una figura comprimaria, di supporto…). L’infanzia è un periodo di passaggio, un’iniziazione, e il bambino un essere incompleto, grezzo, fatto di potenzialità non definite, di istintualità cieca e irragionevole, neanche persona finita perché incapace di responsabilità.
Essere bambino si deve, non foss’altro che per motivi di immaturità fisica, ed è una fase da attraversare, il più velocemente possibile, supportato e sopportato dall’adulto. “In braccio ancora? Ma sei grande!” si dice al bimbetto di 5 anni che richiede le braccia del genitore. “Ora sei grande, e ti devi prendere cura del fratellino!” si dice al piccolino di 4 anni indicando il consanguineo appena nato. “Nel letto di mamma? Ma ormai sei grande!” si dice al frugoletto di 3 anni che nel mezzo della notte richiede il caldo guscio del corpo materno.
Essere infanti, con tutto il suo gioco e la sua spensieratezza, è una cosa da dimenticare per vivere davvero, perché la vita è fatta di ben altri principi, la posatezza, la serietà, il buon senso.
Eppure, a sentire Gesù, bisognerebbe tutti tornare bambini.
Il mondo letterario di David Grossman, scrittore israeliano, è popolato di bambini. Bambini feriti dallo sforzo di entrare nel circolo degli adulti, bambini tutti raccolti nella fatica di costruirsi attorno corazze per resistere alla rudezza della vita adulta e che adottano strategie raffinatissime per attrezzarsi alla sopravvivenza. Bambini con dentro mondi troppo vasti per riuscire a costringerli tanto agilmente entro il mondo degli adulti. Bambini di tutte le età, anche di cinquantasette anni, come Dova’le Greenstein, di professione comico, protagonista di Applausi a scena vuota.
Sul palcoscenico per l’ennesima replica del suo spettacolo di cabaret, si trova invece a mettere in scena se stesso, imprigionando il pubblico in una giostra di ricordi che disorienta, spaventa, diverte, attrae e respinge. “E adesso, fratelli miei, guardatemi bene e ditemi cosa vedete. No, sul serio, cosa vedete? Un uomo finito, quasi senza carne addosso, senza materia. Anzi, con una strizzatina d’occhio alle scienze esatte direi composto di antimateria. A un passo dalla rottamazione, no?” (p.72).
Dova’le è un bambino gracile, che la banda dei bulli ha preso di mira, allegro. Ma nessuno dei coetanei conosce la sua vera vita. Una vita segnata dalla Shoah, come ce ne sono tante tra gli ebrei. Perché non è finito tutto nel 1945, e i sopravvissuti non passano il loro tempo raccontando il disastro agli studenti delle scuole superiori o a partecipare ai talk shows o a scrivere libri. I sopravvissuti devono fare i conti con la sopravvita. Magari mettono su famiglia, hanno figli e devono anche cercarsi un lavoro. Come i genitori di Dova’le. Ma su tutto questo aleggiano le ombre oscure di quando la morte valeva più della stessa vita, di quando tutti attorno a te venivano falciati e tu chissà come e perché restavi in piedi, di quando non eri più un uomo ed eri anche meno di un oggetto tra le mani folli di altri uomini che avevano tutta l’apparenza di essere tuoi simili.
Papà e mamma di Dova’le, sconosciuti eroi macilenti, si danno da fare cercando di dimenticare di non essere stati umani in un tempo lontano ma sempre presente. E il papà si affanna per ricostruire una vita più o meno sensata, tutto proiettato nel suo dovere di padre, marito, capofamiglia, tra dieci piccoli lavori diversi, senza mai posa. E tra un lavoro e l’altro cura la casa, lava, cucina, rammenda. La madre invece porta sul viso una maschera a brandelli, e vive tra gli altri sempre a capo chino perché non si veda. Ha già tentato di tagliarsi le vene e perciò non può essere lasciata mai sola, in casa sempre persa in un mondo lontano.
E il piccolo Dov, così fragile e spensierato, cammina sulle mani, se ne va in giro così, dappertutto, perché da quella prospettiva la vita ha un’altra faccia, il pianto sembra un riso, la tristezza gioia, la pesantezza leggerezza, le gambe non fanno alcuna fatica a camminare per le strade del mondo. Dov, che nasconde dietro le sue buffonerie la paura per le esplosioni d’ira impreviste del padre, manesco e rigido, la preoccupazione per la fragilità della madre di cui si prende cura, per la quale ogni sera, mette su un personale spettacolo di cabaret perché possa trovare ristoro per qualche minuto. Con la sua buffoneria, il piccolo Dov, è un fine stratega, porta avanti il suo progetto di amore per il mondo, pur così ostile verso di lui. Col suo corpo capovolto Dova’le accoglie la vita senza odio né rabbia.
I bambini sono santi in questo, perché accolgono il mondo senza giudizio, disposti a riposizionare se stessi per abbracciare la vita anche se arriva armata di punte aguzze, anche se ne avranno il corpo dilaniato; se colpe ci sono le assorbono in sé pur di rendere innocenti gli adulti che hanno accanto, pur di redimerli, salvarli dalle sofferenze che essi pure hanno e hanno dimenticato di avere.
Applausi a scena vuota è un canto d’amore verso padre e madre, verso ciò che è famiglia, imperfetta, ferita, stanca, disorientata, per nulla nido accogliente. Ma, quale che sia, un bambino non vorrà mai perdere la sua famiglia. E farà di tutto per tenerla in piedi a costo del sacrificio di sé. “Il nostro appartamento improvvisamente mi sembra un paradiso, anche se è piccolo, buio e soffocante per la puzza degli stracci, dei pantaloni arrivati da Marsiglia e delle pietanze di mio padre. Ma anche quella puzza a un tratto mi piace. È vero che era tutto una merda, un manicomio. È vero che me le davano spesso e volentieri. E allora?” (p.269)
Dova’le, comico forse in fin di vita per un qualche tumore, è ancora quel bambino, bloccato dall’orrore di essersi trovato un giorno a dover decidere se preferire la morte del padre o quello della madre, squassato dalla fatica di dover scegliere a chi dei due dare vita rintracciando i bei momenti da ricordare.
Un'altra cosa che caratterizza la scrittura di David Grossman è la figura dei padri. Troppo spesso rinchiusi in gusci duri da adulto ma con occhi di bambino, capaci dei piccoli gesti dell’amore reale, fisico, tenero, capaci di perdersi nei sogni, bisognosi dell’àncora salvifica dello sguardo di un figlio. E così tra le pagine dei suoi romanzi si ritrovano quegli attimi di paradiso che redimono la vita di un padre e di un figlio insieme. Come i venerdì mattina di Dova’le, che la mamma faceva il turno in fabbrica e il padre se lo portava in giardino, e tenendolo accucciato a sé fischiettava imitando gli uccelli mentre gli imboccava la colazione.
La follia del messaggio di Gesù sta nel fatto che il mondo può essere redento da gesti deboli come il perdono e il sacrificio di sé, non dall’imposizione di questa o quella idea. Chissà, forse un giorno ci renderemo conto di quanto della nostra vita, della nostra autostima, dei nostri attimi di serenità è tenuto in piedi, salvato, dai quotidiani deboli gesti dei frugoletti che ci sgambettano per casa.

sabato 24 gennaio 2015

Un appello per la riforma spiriturale - Carson


D. A. Carson, Un appello per una riforma spirituale, Passaggio, Mantova, 2005.


Il bel testo di D. A. Carson “Un appello per una riforma spirituale” ha già 23 anni (l’edizione inglese originale è infatti del 1992), ma rimane di grande attualità e merita di essere preso in considerazione, visto che affronta una tematica che difficilmente tramonta, quella della preghiera. L’autore parte dalla costatazione che proprio la preghiera è una priorità per la chiesa di oggi, ma si rende conto di quanto spesso sia grandi predicatori che semplici credenti trovino difficile vivere una vita di preghiera costante, rigorosa e motivata. Sceglie quindi un corpus di preghiere del nuovo testamento, quelle dell’apostolo Paolo, per studiarne la struttura, i contenuti, e le motivazioni per fornire un modello a cui le preghiere della chiesa di oggi possano ispirarsi. Con “preghiere” dell’apostolo Paolo Carson intende i diversi passi in cui Paolo scrive frasi come: “preghiamo continuamente per voi” (II Tess 1, 11), o “Noi ringraziamo Dio padre per voi, pregando sempre per voi…” (Col 1, 3), quindi non solo vere e proprie preghiere ma anche discorsi più ampi in cui l’apostolo dichiara ciò per cui ha pregato o intende pregare.

Non si tratta di un’analisi tipologica di tutte le diverse preghiere di Paolo, ma di una specie di esegesi, o comunque di commento, a diversi passi in cui Paolo spiega per cosa prega. Così da un passo come I Tess 1, 3-12, Carson evince una struttura che pone il ringraziamento come momento fondamentale e strutturante di molte preghiere di Paolo. Preoccupato della caratteristica di molte nostre preghiere (individuali o di chiesa) fatte sostanzialmente di richieste, Carson mette a confronto le richieste più comuni che si avanzano in preghiera con alcune richieste di Paolo, che mirano al perfezionamento dei credenti, al vederli capaci di realizzare i propositi ispirati dalla fede (quindi non solo al miglioramento delle condizioni materiali, o di salute ad esempio), in una prospettiva che ha come fine la glorificazione di Gesù. Importanti anche il quarto ed il quinto capitolo che sottolineano l’altruismo dell’apostolo nel porre quasi sempre gli altri come oggetto delle sue preghiere, attraverso una disamina di preghiere nelle diverse lettere e la passione con cui prega per i credenti sia a lui noti, in quanto frutto della sua evangelizzazione, sia ignoti ma nondimeno impegnati nella causa del vangelo. Il capitolo 6 è invece centrato sui contenuti che hanno le preghiere di Paolo, premettendo il carattere disinteressato, incessante e capace di unire ringraziamento e richiesta in ogni preghiera. Trova in Colossesi esempi di preghiere che hanno come contenuto la richiesta della conoscenza della volontà divina, o l’auspicio di poter compiacere a Dio, attraverso opere buone, crescita nella conoscenza, o nella perseveranza e nella riconoscenza. Il capitolo 7, dal realistico titolo “Scuse per non pregare”, passa in rassegna una serie di scuse comuni che vanno dalla mancanza di tempo al sentirsi indegni o spiritualmente depressi per pregare, e mostra come esse siano in genere frutto di una visione della vita cristiana che mette troppo spesso al centro il proprio io, anziché il creatore delle nostre soggettività. Il capitolo che segue, considera proprio il problema di chi si trovasse in difficoltà, e propone una riflessione su quelle che nell’epistola ai Filippesi vengono definite “le cose migliori”, che sono appunto quelle per cui è fondamentale pregare consistenti in una crescita per una conoscenza divina che porta all’amore, che permetta di strutturare la totalità della vita in base ad una serie di valori che determinano le nostre scelte e che nella preghiera maturano.

Se la maggior parte del libro ha un taglio decisamente pratico ed operativo, mirante a fornire una serie di spunti per pregare, i capitoli 9 e 10 affrontano il problema teologico non indifferente del rapporto tra responsabilità umana e sovranità di Dio, rapporto che nell’ambito di qualsiasi preghiera di richiesta emerge. La tesi di Carson è che la Bibbia affermi sia la piena responsabilità umana che la totale sovranità divina, concetti contradditori per buona parte del pensiero occidentale, ma che una riflessione teologica biblicamente ispirata deve riuscire ad inserire in una cornice non dualistica e coerente. Segue un capitolo sul carattere potente di ogni preghiera di Paolo, laddove con potente si intende capace di cambiare le vite, di incidere proprio quanto ai contenuti, alle richieste e alle finalità evidenziate nei vari capitoli.

A conclusione del libro un capitolo dedicato interamente alla preghiera per il ministero, nel quale si osservano le richieste di preghiera che Paolo avanza relativamente al suo stesso ministero, dal carattere perseverante, incessante ed alcune delle quali non vengono per altro esaudite.

Il libro si rivela un eccezionale strumento di motivazione alla preghiera e fornisce numerosi e ben fondati stimoli a chi vive una vita di preghiera ripetitiva, sterile o discontinua. Senza mai mostrare toni di giudizio o di accusa il testo propone molteplici incoraggiamenti ed osservazioni realistiche anche di carattere biografico tanto sulle difficoltà che si incontrano nel pregare, quanto sui successi di una vita che grazie alla preghiera migliora. E’ particolarmente adatto per la riflessione di gruppo, nel contesto di studi biblici di chiesa, in quanto corredato alla fine di ogni capitolo di una breve serie di domande capaci di stimolare un dibattito o degli approfondimenti.

Si può obiettare che non sempre è palese la distinzione tra ciò che nelle diverse epistole prese in considerazione è considerato come struttura, contenuto, o richiesta (ci si potrebbe chiedere ad esempio perché una richiesta meritoria non sia già di per sé parte del contenuto, o se ciò che viene indicato come contenuto non sia effettivamente una serie di richieste legittime e meritorie), ma si tratta probabilmente da parte dell’autore di uno sforzo di sistematizzazione utile anche a fini mnemonici. L’unico vero difetto che si rileva è la traduzione che presenta diversi refusi, qualche errore di traduzione, e di grammatica, e nella resa in italiano diversi anglicismi che non sempre facilitano la lettura. Ciò detto è un testo di alto valore per il quale ringrazio la casa editrice passaggio per la traduzione al pubblico italiano.





Stefano Molino - DIRS GBU

mercoledì 14 gennaio 2015

Telemaco, o dei figli che cercano un padre

M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano, 2014, pp. 153, € 8,00
Recensione: Daniele Mangiola


Nessuno può mai dire che tipo di genitore sarà finché non si trovi con un figlio tra le braccia. E il fatto stesso che possano esserci differenti tipi di genitore è un problema tipico del nostro tempo. Non abbiamo più quell’unica visione premoderna della vita e della famiglia in cui si trova un unico modello genitoriale, la madre, colei che offre le cure, la protezione, l’abbraccio, la casa, il padre, colui che instrada alla vita, apre la porta e indica il mondo là fuori, il cammino che porta lontano da casa. La modernità ha messo però talmente in crisi il principio di autorità al punto che la figura che la incarnava, il padre, si è “evaporato”, per usare una terminologia derivata da Jacques Lacan.
Come restare padri nel tempo dell’evaporazione del padre era stato un problema affrontato in una pubblicazione di un paio di anni fa da Massimo Recalcati, psicoanalista di dichiarata fede lacaniana. Sulla stessa strada continua il suo successivo Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre. Recalcati è uno di quegli autori che piacciono tanto all’editoria italiana, capace di conquistare il lettore medio (una edizione in “Serie Bianca” e due in “Universale Economica” per Feltrinelli, del presente libro) pur mantenendo il rigore dello studioso. Una scrittura carica di forza evocativa (che dire di “Siamo tutti Telemaco. Abbiamo tutti almeno una volta guardato il mare aspettando che qualcosa da lì tornasse”? p.14) e una concettualità fluida e ricercata.
E’ che per reazione all’evaporazione della propria autorità, a quanto pare gli adulti hanno abdicato alla propria responsabilità di educatori, così che “non prevale tanto il genitore-educatore ma il suo rovescio speculare: la figura del genitore-figlio” (p.59). Sono evaporati anche gli adulti, insieme all’autorità che incarnavano, fissati in una eterna adolescenza, coetanei dei propri figli. Per evitare alla discendenza la traumatica esperienza dello scontro con la parola della Legge, i genitori hanno inscenato una pantomima del costante godimento ad uso e consumo della prole. L’esperienza individuale e familiare assurge a paradigma sociale ed esistenziale e dunque noi tutti, figli di questo Occidente, siamo costantemente cullati dal miraggio di un godimento ininterrotto, sommersi di oggetti e così storditi da un benessere senza freni, senza Legge Altra, né Dio che si opponga, il godimento diventa solo dio e legge.
Una spensieratezza triste, però, segnata da un bisogno compulsivo del godimento, un dio tirannico perché mai sazio, in una grande giostra di oggetti seducenti tutti uguali e dalla vita breve, sfiancati dall’inseguire il capriccio dei figli ai quali nessuna responsabilità è stata insegnata. “Restituire valore al carattere simbolico della Legge implicherebbe per i genitori saper rinunciare alle aspettative narcisistiche sui loro figli” (p.64), ma l’adulto ha subìto un processo di “adulterazione” (p.68) che lo ha portato alla rinuncia delle proprie responsabilità.
E se essere genitori è diventato tanto problematico, l’essere figli non è oggi affatto uno scherzo. La psicoanalisi ha insegnato come è nello sguardo della madre e del padre che il figlio trova l’immagine di sé, si riconosce. Nella figura di Edipo la sapienza psicoanalitica ha rintracciato il paradigma del figlio che individua nel padre il limite da oltrepassare per affermare se stesso. Ma che ne è di Edipo in un tempo in cui del padre non ne è più nulla? È passato il tempo del figlio-Edipo (p.98segg), dice Recalcati, ed è passato anche il tempo del figlio-antiEdipo (p.102segg), che evita il conflitto col padre-Legge semplicemente perché non ne riconosce più la paternità; è venuto dopo il tempo del figlio-Narciso (p.107segg), in cui “l’idolo-bambino impone alla famiglia di modellarsi attorno alla legge arbitraria del suo capriccio”: non ha avuto alcun padre che lo ponesse di fronte al limite, alla parola di una Legge Altra, altra dall’imperativo del suo proprio godimento.
Di nuovo c’è che dai figli si eleva ora una domanda di Legge, una domanda di limite, il bisogno di por fine a questo circo del godimento senza freno, “invocano il padre non come ostacolo – come accade per Edipo – ma come possibilità di riportare la Legge della parola nella propria casa” (p.116). Questo è il tempo del figlio-Telemaco (p.111segg), che vive l’assenza del padre come attesa del suo ritorno. Mentre i Proci assediano la sua casa, Telemaco guarda al mare aspettando che Ulisse torni. Ma non si limita ad un atteggiamento nostalgico, anzi agisce, parte alla ricerca del padre. Oggi, in un mondo senza autorità, senza Legge, senza limite, questi figli chiedono soltanto che qualcuno faccia da padre.
Altro tema caro a Recalcati è quello dell’eredità trattato questa volta dal punto di vista del figlio, dell’erede. Ereditare è accettare il debito simbolico nei confronti del padre, quale che esso sia; ci sono due modi di fallire il gesto dell’erede: l’uno è quello dell’identificarsi passivamente con il lascito paterno, nella mera ripetizione di ciò che è stato (p.124), l’altro è quello di rifiutare il debito simbolico, nel non riconoscere il padre (p.130). Per diventare erede bisogna prima di tutto diventare orfano, perdere il padre, confrontarsi con il lutto. Non accettare la perdita del padre, in psicoanalisi, è restare bloccati nel figlio che non sa camminare con i propri piedi, non sa prendere la propria strada, farsi carico e amministratore dell’eredità. All’altro opposto si può diventare orfani per aver eliminato il padre, per averlo ucciso, facendosi padri di se stessi, rifiutando di essere orfani. Il “giusto erede” (p.121) è il figlio che si fa figlio, che adotta il padre anche se sa rinunciare ad esso, elaborarne il lutto, “la rinuncia al padre diventa cosa ben diversa dal rifiuto del padre” (p.94).
Tutto il discorso di Recalcati si muove in continuazione tra i piani diversi dell’esperienza individuale-relazionale, sociologico-politica e esistenziale-religiosa. Frequenti richiami alla situazione attuale italiana, al fallimento della classe politica ridotta a banda di eterni adolescenti determinati dall’unica legge del godimento, incapaci del gesto responsabilmente adulto di essere guide, testimoni di un Desiderio che incontra la Legge della parola, la parola della Legge. Costante il rimando alla tematica del divino, sono la prima e l’ultima parola del libro. “C’è stato un tempo in cui pregare era come respirare, in cui pregare era un evento della natura” (p.19) è l’incipit, per poi terminare nell’identificazione Gesù-Telemaco (p.117 e 145).
Massimo Recalcati, pur dichiarandosi nettamente laico, distante dall’esperienza religiosa, è un autore caro al mondo cattolico: spesso invitato in conferenze e dibattiti sulla famiglia, la tematica della paternità, la crisi sociale contemporanea, frequentemente citato. Piace questo suo appello alla necessità del ritorno del Padre, della sua testimonianza come eredità da trasmettere, questo rimando speranzoso ad un recupero dal Padre, dal basso, per così dire, per iniziativa dei figli che ne richiedono e ne attendono il ritorno. E’ quel tipo di rassicurazione che piace tanto in ambito cattolico.
Tornando al testo, uno dei richiami frequenti è, ovviamente il Nietzsche di “Dio è morto”. E’ morto quel Pater altissimo, irraggiungibile, severo e monolitico, ed è una buona cosa, certo, solo che senza padre l’uomo si è smarrito nelle tragiche derive totalitarie di cui il Novecento è stato testimone, in cui quel vecchio dio è stato rimpiazzato da una divinizzazione della parola umana diventata ideologia. Sono poi finite le ideologie, sono morti quei padri folli e sfrenati e oggi c’è dovunque un grande bisogno del ritorno del Padre. Con un volto nuovo, ingentilito, certo, ma la speranza è che torni a riportare la Legge nella nostra casa.
“L’uomo è all’altezza del compito che gli impone la propria libertà?” (p.44). Il delirio delle ideologie e dei totalitarismi ha dimostrato che essere liberi non è facile, che ad essere senza padre si finisce per farsi padri di se stessi. L’autore arriva (p.48) a dare di Nietzsche un ritratto “moralistico” come di colui che si interroga sul come abitare una libertà senza padre, sul come essere uomo senza idoli metafisici, colui che avverte che la libertà assoluta è pericolosa. C’è qui a mio avviso uno scivolamento sottile, ma sostanziale su quanto di Nietzsche è stato detto da Heidegger: Nietzsche è ancora entro il mondo dominato dal fantasma di Dio, non ha affatto elaborato il lutto, ha ancora le mani sporche del sangue del Padre, è l’ultimo grande discorso metafisico, non si pone affatto fuori dalla vecchia entificazione del dio della morale. Questo significa che i totalitarismi tragici del Novecento non sono la dimostrazione che l’uomo non sappia essere libero, non sono gli effetti della morte di Dio. Sono la dimostrazione della morte di Dio. Non è che “Dio è morto”, è che “noi lo abbiamo ucciso”. Dio era diventato così tanto una Cosa che alla fine lo abbiamo eliminato. I totalitarismi sono stati l’uccisione di Dio per fare posto ad un altro dio umano. La “morte di Dio”, dice però Bonhoeffer, è stata una cosa buona, quello era soltanto un Dio tappabuchi destinato a retrocedere ad ogni passo in avanti dell’umanità. Nessun rimpianto, nessuna nostalgia. Quel Dio era un altro idolo umano un ricettacolo di immagini antropomorfe, di pulsioni frustrate e poi sublimate.
Suonano rassicuranti, in termini di etica della famiglia, le affermazioni di Recalcati, sul fatto che, anche se la Legge non si identifica con il Padre, è però soltanto nel Padre che il figlio lo può trovare, sul fatto che anche se il padre è assente, non è la sua assenza “a essere traumatica in se stessa; dipende da come essa viene trasmessa simbolicamente dalla parola della madre” (p.113); sembra qui riprodotto il quadretto tradizionale della famiglia, con un padre magari assente per procurare il pane necessario alla famiglia, come accadeva nella pubblicità di una certa pasta. Un padre, inoltre, che non dispone della propria immagine, la quale è amministrata presso il figlio dalle parole della madre (quale madre? La Madre Chiesa?).
Fortemente evocativa, infine, l’immagine di Telemaco che non si rassegna alla perdita del padre, ma lo attende, anzi, fa di più, parte alla sua ricerca, corre in suo incontro per riportarlo al suo posto. Dopo le tragedie del Novecento, Dio Padre è talmente debilitato da aver bisogno di essere salvato dall’uomo. Come nelle parole di Etty Hillesum, ebrea cattolica, vittima della Shoah. Pure Massimo Recalcati è ebreo e questa tematica dell’uomo che difende Dio è presente anche in tanta sapienza talmudica tradizionale. Ma, sempre in ambito ebraico, Martin Buber distingueva invece nettamente la teocrazia dalla ierocrazia, dal luogo in cui, cioè, la parola divina è soggetta ad amministratori umani. Le due o tre volte in cui nel libro la parola “anarchia” è presente, è solo e nettamente nella sua accezione negativa, popolare. Ogni ribellione alla legge è sempre patologica, espressione di una nevrosi, la legge è sempre giusta o perlomeno, sempre rettificabile dall’interno, il suo rifiuto espone sempre alla perdita di sé.
A conti fatti il discorso di Massimo Recalcati è avvincente, importante, su una tematica di scottante attualità, condotto con perizia, e sempre intenso, grazie anche al suo talento di scrittore, resta però da vedere se davvero Dio della Bibbia intenda essere quel Padre del conflitto, che deve frustrare la istintiva pulsione al godimento per far incontrare Desiderio e Legge, se questi adolescenti alla ricerca di un padre forte, anche se gentile, che finalmente sappia riportare nella loro casa la legge, siano poi davvero dei “giusti eredi”, se non siano soltanto dei figli ancora feriti, senza altra prospettiva che il desiderio nostalgico del ritorno di un tempo che non può più tornare.


lunedì 5 gennaio 2015

Imparare dagli “altri”

Imparare dagli "altri"
Uno degli scrittori di saggistica più interessanti dell’ultimo decennio è senza dubbio Jared Diamond. Nato come ornitologo, diventato docente di geografia ad UCLA, assurto alle cronache letterarie per il suo Armi, Acciaio e Malattie, in cui, in meno di 300 pagine traccia una storia millenaria dove si dimostra la superiorità “naturale” dell’Occidente, si è tuffato nel campo dell’antropologia comparata nel suo ultimo testo intitolato Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali?, edito in Italia nel 2013 da Einaudi.
Il testo di Diamond, dopo l’excursus storico del primo libro citato, dopo gli appelli ecologici di Collasso, vuole raccontare cosa succede (o cosa succedeva) nelle cosiddette culture d’interesse etnologico, profondamente cambiate oggi, ma che ancora (almeno in alcuni degli esempi riportati), mantengono delle usanze e delle tradizioni diverse da quelle dall’Occidente e da cui il nostro mondo potrebbe imparare (forse) qualcosa.
Si tratta, quindi, di un tentativo di antropologia comparata, che segue, benché sia moderno nell’impianto, la “vecchia” tradizione della storia degli studi di antropologia sociale in cui si “comparano” diverse civiltà per ricevere diverse informazioni. Una “differenza” tra gli studi di Tylor e Frazer (mi sto riferendo a Alle origini della cultura e al famoso Ramo d’oro) e quello di Diamond è che l’autore californiano parte dalle proprie conoscenze della Nuova Guinea, terra dove, accanto alle sue ricerche ornitologiche, ha potuto fare la sua esperienza “sul campo” per poi aggiungere conoscenze derivanti da altre fonti e raccontare della sua esperienza come occidentale. Il testo parte, come sempre, da un’immagine piuttosto scontata oggi, quella di un aeroporto (in Nuova Guinea) dove s’incontrano persone profondamente differenti tra loro, ma accomunate dalla facilità del viaggio e della comunicazione che, solo quaranta anni fa, erano molto più ardui da fare.
Per l’A., la differenza fondamentale tra la “nostra” civiltà e quella “altra” deriva dalle fondamenta dello Stato e dello scambio commerciale. Diamond, infatti, ritiene che lo Stato moderno sia un’invenzione tutta occidentale che ha una sua unicità ed una sua evoluzione che ha portato, talvolta, ad una gestione della società di tipo piuttosto impersonale ma efficiente e che ci ha permesso di vivere bene. Partendo da questa costatazione s’inizia una disamina comparativa che parte dalle istituzioni politiche. Lo studioso americano, che non è per niente contrario alla solidità dell’istituzione statale, parlando delle organizzazioni non statali, ne rileva i piccoli numeri ed i rapporti clanici e personali. Questo permette lo studio di passare alla considerazione di due aspetti importanti della vita sociale: quello della guerra e quello del “far” giustizia. Negli esempi riportati da Diamond, al contrario di quanto alcuni studiosi pensano, la guerra è più minacciosa e deleteria in un’istituzione non statale che in quella dello Stato che, avendo lo scopo di proteggere i suoi cittadini. Per dimostrare tutto ciò, è usata un’analisi di tipo percentuale e quantitativo che mostra che alcuni conflitti avvenuti tra diverse etnie in Nuova Guinea percentualmente siano stati più deleteri avvenuti in Occidente, compresi i conflitti mondiali. Anche sulla giustizia ci sono dei pro e dei contro. L’A. mostra come i rapporti personali presenti in un mondo non statale possano portare sia ad un’etica della riconciliazione (che non preveda la punizione per chi ha commesso il delitto) che ad una vendetta continua tra clan che aumenta la violenza.
L’A., nel breve testo (come da lui affermato, e come sostanzialmente è, visto i numerosi argomenti trattati), si sofferma anche sugli aspetti dell’economia di mercato e su come essa sia superflua in economie che hanno un raggio di azione limitato e non usano il denaro in senso tradizionale. Interessanti sono poi i capitoli dedicati all’allevamento dei figli e al trattamento degli anziani. Diamond, dopo aver descritto cosa avviene a tal proposito nelle nostre società, mostra alcune alternative, che vanno da quelle delle popolazioni nomadi che hanno un’infanzia molto più breve della nostra a quelle delle popolazioni più sedentarie, dove, comunque, la percezione del rischio per i giovani è minore che nelle nostre società. Sono descritti anche i trattamenti nei confronti dei più anziani che vanno dall’eutanasia al trattamento con profondo rispetto dei (pochi) sopravvissuti ad una certa età.
Il testo si sofferma poi sulla percezione del pericolo (chiamata paranoia costruttiva), sulla morte, sul senso religioso, sulle malattie, sul multilinguismo e sull’alimentazione. Tra i numerosi argomenti vale la pena soffermarsi su quello concernente la religione. Diamond fa un discorso puramente antropologico e non entra nel campo della fede dell’individuo, ma cerca, seguendo in ciò le definizioni che di religione hanno dato William James e Clifford Geertz (ma citandone diverse altre con l’ammissione che definire la religione è cosa difficile) di analizzarne gli aspetti sociali. Il limite di quest’analisi deriva da una scarsa conoscenza della diffusione delle grandi religioni e, talvolta, l’A. sembra confondere animismi di vario tipo, rassicurazioni che vengono dal legame con il divino nei confronti dei pericoli, da quello che è il modello delle grandi religioni monoteiste.
Lo studio, come sempre accade ai testi di Diamond, si legge con piacere e l’A. è capace di trascinarti nelle sue disquisizioni, quasi convincendoti che ciò che propugna è piuttosto naturale. Allo stesso tempo diverse sono le obiezioni che possono essere fatte al testo. La prima riguarda la comparazione, piuttosto semplicistica e, talvolta, derivante da fonti terze che non sempre descrivono accuratamente ciò che avviene in una società diversa dalla nostra. Fare comparazione in un mondo complesso come il nostro appare impresa ardua e, forse, sarebbe stato meglio semplicemente descrivere ciò che accade “altrove”, per lasciare la valutazione finale al lettore. La seconda ha a che fare con lo sguardo troppo naturalistico. Più volte (ma questa è una critica che va fatta anche per gli altri testi di Diamond) l’A. sembra deporre a favore di una visione “naturale” e necessaria delle cose, dove sembra quasi che l’intervento umano non possa fare molto per cambiare le cose. Il rapporto uomo/natura o natura/cultura sembra essere sempre favorevole ad un certo meccanicismo e legge della necessità. Un’ultima critica poi va fatta all’idea “totalizzante” di poter trattare quasi tutto. Ne risultano deficitarii alcuni passaggi (come quello sulla religione) che rendono il testo discutibile. Nonostante queste critiche il testo rimane valido e la lettura piacevole.


                                                                                              Valerio Bernardi - DIRS GBU