giovedì 27 novembre 2014

Dentro il fondamentalismo



Enzo Bianchi e Gilles Kepel, Dentro il fondamentalismo, Torino, Bollati Boringhieri, 2008, pp. 44



Questo libricino è la trascrizione di un'intervista-confronto fatta ai due autori da Alberto Melloni, membro della Fondazione per le scienze Religiose Giovanni XXIII di Bologna, durante Torino Spiritualità del 2008. Enzo Bianchi è il noto fondatore della Comunità di Bose mentre Gilles Kepel è un sociologo e analista politico francese, specializzato in mondo arabo medio orientale. 

Nonostante le domande non sempre all'altezza delle risposte, la brevità del trattato non dev'essere confusa con la semplificazione. Bianchi e Kepel, da ottimi divulgatori e attenti osservatori del contemporaneo, delineano le origini del fondamentalismo, nella Bible Belt statunitense, per spingersi alla ricerca delle necessità ad esso sottese e fornendo così una chiave interpretativa al fenomeno più interessante del XXI° secolo: il riemergere delle religioni come tratto identitario dopo il fallimento delle ideologie o come reazione alla modernità.

Se il fondamentalismo è “una tentazione quasi fisiologica per le religioni” è importante comprendere i fenomeni sociali che ne facilitano l'emergere, uno dei quali è la necessità di marcare la differenza tra noi e voi, anche attraverso la produzione di “ immagini scioccanti”. Il riferimento di Kepel alle esecuzioni degli ostaggi occidentali in Iraq, torna così ad essere ancora oggi tragicamente attuale, introducendo una riflessione sull'uso di Internet come “un mondo che prospera sull'abolizione delle distanze nello spazio e nel tempo, ossia sulla scomparsa del contesto e dunque sulla fine dell'interpretazione”. Buona lettura

Elena Ammirabile (DiRS - GBU)

lunedì 24 novembre 2014


Un contributo evangelico al mondo della scuola italiana

P. Pisani Paganelli, Matilde Calandrini. Ieri e domani.  Pisa 2009, Felici Editore.
La figura di Matilde Calandrini non è forse conosciutissima nel mondo delle chiese evangeliche italiane, benché chi abbia qualche conoscenza, anche superficiale, della storia della Chiesa dei Fratelli, legherà il suo nome a quello del ben più noto Piero Guicciardini.  Questa ragazza, ginevrina di origini lucchesi, immigrati per motivi confessionali nella svizzera calvinista, e fervente credente, ebbe infatti un’importanza decisiva per la conversione del conte fiorentino che nella Firenze dell’800 dette vita ai primi gruppi di quella che fu poi la Chiesa dei Fratelli. L’importanza della Calandrini per l’Italia tuttavia, non è limitata alla sua amicizia con il Guicciardini; la giovane svizzera ha avuto infatti il merito di fondare a Pisa la prima scuola laica della Toscana (e la seconda in Italia), sperimentandovi un audace progetto formativo in linea con la pedagogia europea d’avanguardia. Si tratta di un contributo evangelico al mondo della scuola italiana, che ha visto negli ultimi dieci anni due riforme, più la terza che il governo Renzi si accinge a varare, che del problema della laicità non tengono minimamente conto.
Il testo in questione è un breve saggio romanzato (79 pagine) che illustra la vicenda umana, professionale e in parte anche spirituale di questa giovane donna svizzera, venuta in Italia a Pisa nel 1830, ed entrata in contatto con quei circoli di intellettuali fiorentini esponenti del cattolicesimo liberale o del protestantesimo di matrice straniera, ed attenti alle problematiche dell’educazione, soprattutto dei poveri. Frequenta il Vieusseux, il Lambruschini, il Mayer e incontra il pedagogisti Don Ferrante Aporti, divulgatore in Italia del metodo Pestalozzi. Stringe amicizia con  Luigi Frassi, che molto la aiuterà in seguito nella realizzazione dei suoi progetti. Con l’aiuto di alcuni di questi riesce a fondare un asilo per bambine, e nel 1833 una vera e propria scuola laica che ha come riferimenti il pedagogista Pestalozzi, e che viene sostenuta dalla Calandrini stessa e da altri benefattori affascinati dal progetto dell’alfabetizzazione delle masse. Una scuola quindi privata, ma che forniva un bel servizio pubblico gratuito, tollerata dall’autorità ecclesiastica che non poteva disconoscere l’utilità del servizio prestato, ma che si riservava comunque di garantire il catechismo.
Il saggio illustra anche la dimensione religiosa dell’impegno della Calandrini, che si concretizza in un forte attivismo rispetto alla fede evangelica: “La dama presiedeva serali culti domestici. Che si basavano sulla libera lettura della Bibbia e sulla recita di preghiere come dettava il cuore.” (p. 61) Racconta quindi come in questo contesto si convertirono alcuni importanti intellettuali toscani come Tito Chiesi, Giuseppe Montanelli e Piero Giucciardini. Ma proprio questo attivismo, unito all’amicizia con il Vieusseux sospettato di cospirazione contro il Granduca Leopoldo II,  e l’influenza della donna sui circoli intellettuali in direzione protestante, attirano sulla Calandrini una serie di sospetti che si traducono poi in un espulsione dal Granducato, con conseguente ritorno in Svizzera. Il saggio si conclude con una valutazione del lascito della Calandrini, che dalla Svizzera continua a restare in contatto con i suoi amici, per morire nel 1866.
Nel tentativo di dare una valutazione da parte di un lettore evangelico, questo libro ha soprattutto due meriti. Il primo è che, benché in forma succinta e romanzata, fornisce una prima monografia su Matilde Calandrini, di cui finora esistono solo parti di opere più ampie sul protestantesimo in Italia (cfr. Spini, Risorgimento e Protestanti), o di saggi di pedagogia (E. Codignola, Pedagogisti ed educatori, Milano 1939, advocem). Si tratta, tra l’altro, di un contributo che non viene da un’autrice evangelica, ma che appare alquanto affascinata dalla portata del fervore della Calandrini. Il secondo sta nel rilevare ulteriormente l’importanza del ruolo degli evangelici nel Risorgimento italiano, su una problematica importante come quella dell’istruzione della masse. A questo si aggiunge che la Calandrini è , appunto, una donna, elemento che non può non gettare luce sull’importanza delle donne nel clima del Risveglio sia in Italia che oltralpe. 

Stefano Molino (DiRS-GBU) 

martedì 11 novembre 2014

Gli Ebrei e le parole

A. Oz, F. Oz-Salzberger, Gli ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica, Feltrinelli, Milano, 2013, pp. 237, € 20,00.


  “ll popolo d’Israele, in tutte le generazioni che precedono il XIX secolo, si è chiamato semplicemente così, “popolo d’Israele”, bne Israel o am Israel. Il loro impegno morale si chiamava Torah e mitzwot (precetti), non yahadut” (p.161). Il termine “Ebraismo” (ma più precisamente “giudaismo”, yahadut) non riguarda la storia del “popolo d’Israele”, se non parzialmente e solo da poco più di un secolo, come fanno notare Amos Oz, scrittore e sua figlia Fania Os-Salzberger, storica, nel libro scritto a quattro mani, Gli ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica, edito da Feltrinelli nella collana Campi del sapere. Cos’è, infatti “ebraismo”? La prima risposta sarebbe il corpus giuridico-religioso deducibile dalla parte di Bibbia in Occidente chiamata Antico Testamento da cui non si potrebbe disgiungere il Talmud, insieme dei commenti rabbinici composti nel corso dei secoli dai Rabbi, maestri della fede d’Israele. La risposta sarebbe corretta, anche perché è proprio con questa intenzione che si ufficializza questo “neologismo”, yahadut, per affiancarsi agli altri due “ismi” di “Cristianesimo” ed “Islamismo”.
Ma non tutti gli ebrei sono osservanti della Torah, lo sono anzi, oggi, una abbastanza piccola parte. E tutto il movimento politico, laico, antireligioso anche, che ha portato alla formazione dello stato d’Israele, il sionismo? Non ha nulla a che vedere con l’”ebraismo”? Potrebbe forse essere la terra l’elemento identificativo? Gerusalemme? Quella terra contesa a forza di sangue e bombe tra due realtà etniche (?) animate da lunga rivalità? E se così fosse, che ne sarebbe di tutti quegli ebrei (giudei, yehudi) disseminati da sempre in ogni parte del globo? Di tutti quelli che non hanno inteso “rientrare dalla cattività”? di tutti quelli che in “Babilonia” hanno messo radici che non hanno avuto il coraggio o la voglia di recidere?
Gli ebrei e le parole. Alle radici dell'identità ebraicaDistrutto lo stato, dispersa la gente, per ogni dove in fuga e prigioniera, duemila anni fa, del “popolo d’Israele” non è rimasto altro che cenere. Condannati a vivere in terra straniera, parlare una lingua straniera, miscelarsi, nascondersi tra gente straniera, cosa ha preservato questo popolo dall’oblìo? Quale imperscrutabile, imprevedibile miracolo storico può aver permesso ad una cultura atomizzata e delegittimata di preservarsi per venti secoli per poi, contro ogni previsione, risorgere proprio dopo la notte più buia della sua tragica storia, la Shoah?

Il miracolo laico (per nulla religioso, come ribadiscono a più riprese i due autori) consiste nel particolare rapporto che gli ebrei di ogni tempo hanno sempre avuto con la parola, con le parole. È questo il prisma attraverso cui guardano alla storia di Israele nelle pagine di questa interessante opera. “La continuità ebraica si fonda da sempre su parole dette e scritte, su un labirinto di interpretazioni, dibattiti e dissensi in continua espansione… è una linea non di sangue, ma di testo” (p. 11). La riflessione teologica sulla dimensione della parola non è certo nuova nella letteratura ebraica contemporanea. Parola, lingua, testo, chiamata e risposta, silenzio sono dimensioni concettuali attraverso le quali si è esplorato il particolare modo della rivelazione divina per il tramite della Bibbia ma anche attraverso il popolo di Israele, per lo stesso popolo e per il mondo intero, per la comunità umana e per il singolo individuo. Questa volta, prendendo le distanze da ogni dimensione teologica, i due autori si limitano a rintracciare la particolare relazione tra popolo e parole nella cultura ebraica attraverso la storia.

È chiaro e inevitabile che all’origine ci sia la rivelazione divina, quella berit tra Dio e un particolare popolo. Principalmente l’ingiunzione dello Shema (Deut 6,7) di tramandare ai figli “queste parole”. Fedeli a questo dettato, attraverso le epoche, le varie generazioni di ebrei di ogni luogo hanno mantenuto l’impegno a tener viva la propria identità culturale attraverso la trasmissione di essa alle generazioni successive. È certo un tratto comune ad ogni civiltà questo, ma nessun popolo si è preso carico di questa responsabilità con tanta determinazione e, soprattutto, in modo così capillare. Ogni figlio ebreo, appena svezzato, a partire dai tre anni, era iniziato alla conoscenza del testo sacro in un corso di studi obbligatorio per dieci anni. “A scuola, che il più delle volte era costituita da una povera stanzetta, un unico insegnante, una pluriclasse, i bambini studiavano ebraico – che non era la loro lingua madre e non era nemmeno una lingua viva, neanche in epoca talmudica – tanto da poter leggere e scrivere” (p. 17).

Non era utile, non serviva certo a governare meglio le pecore, non era neanche facile, spesso addirittura da fare clandestinamente, ma il detto della Torah “non ammette né giustifica la scelta di allevare un figlio maschio ignaro del testo sacro” (p. 25). E non finiva qui l’impegno alla trasmissione di “queste parole”, ché continuava tra le mura domestiche, attraverso le varie ricordanze e benedizioni rituali a cui la famiglia intera partecipava attivamente, dal più piccolo al più grande (ed anche al più irriverente) avendo la propria parte da mandare a memoria e recitare.

E se lo studio era obbligatorio soltanto per i maschi, la continuità di trasmissione della memoria entro le mura domestiche dava accesso a quella stessa conoscenza anche alle donne di casa, in un modo o nell’altro. Così che non c’è traccia di comunità ebraiche analfabete in epoca antica o medievale e anche nelle epoche più buie, agli albori del secondo millennio, ci sono tracce di donne ebree dotate di solida e illuminata erudizione.
“Le cronache ebraiche contraddicono il luogo comune secondo cui la storia la scrivono i vincitori. Anche quando perdono, e perdono tremendamente, gli israeliti prima e gli ebrei dopo si danno gran pena di raccontarsi la storia. E raccontano ai propri figli tutte le brutte cose successe… tutto fuorché una storia facile da raccontare ai propri figli. Conta più vittime che eroi e, negli ultimi duemila anni, nessun re e neanche un castello” (pp. 139-40). Non si raccontava la “storia ebraica” a quei bambini, come potremmo intenderla noi oggi, era qualcos’altro che veniva tramandato, era la coscienza di un particolare rapporto tra la presenza divina e l’iniziativa umana. Qualcosa che stimolava ad interrogare ed interrogarsi, a porsi di fronte a Dio e al proprio destino in maniera creativa.

Ma cosa ha legato con tanta forza un numero innumerabile di individui alla propria storia, alle parole dei padri, in mezzo a mille avversi destini? Bella l’immagine dell’antica usanza di accompagnare l’apprendimento di una nuova lettera dell’alfabeto con una caramella, quasi a suggerire che dolci sono le parole. Un ininterrotto legame tiene insieme padri e figli, maestri e allievi in questa continuità di testo più che di sangue. Così il padre ha la responsabilità dell’istruzione del figlio e allo stesso modo mille e mille volte il rapporto maestro-allievo è descritto dall’immagine padre-figlio. Allo stesso modo un ininterrotto legame tiene insieme cibo e parole, nutrimento e racconto.

E’ grazie a questa fedeltà che l’ebraico, da secoli lingua morta e sepolta (nelle buie soffitte dove di nascosto veniva tramandata da una generazione all’altra) rinasce all’alba del XX secolo per ritornare viva e, soprattutto, capace di raccontare il proprio tempo.
Attraverso i quattro capitoli, “Continuità”, “Donne vocali”, “Tempo e atemporalità” e “Ogni persona ha un nome” si compie il suggestivo viaggio attraverso le epoche e i luoghi attraverso i quali la cultura ebraica si è sviluppata preservandosi ma allo stesso tempo nutrendosi nelle culture ospiti. Ma non si è soltanto nutrita di quelle culture, le ha influenzate, come testimoniano artisti, letterati, scienziati, filosofi di ogni tempo e luogo con l’unico tratto in comune un particolare nome che sotto storpiature varie celava l’origine in quel popolo d’Israele.

Pure se il punto di vista è laico, tutto il testo è carico di riferimenti biblici, profetismo, miracolo, dialoghi schietti, puntugliosi, meravigliosamente vivi, irriverenti, spesso, come è tipico della spiritualità ebraica, tra Dio e l’uomo, di quella familiarità con il Dio di Abramo che non può che affascinare e rapire il lettore cristiano. Ed è proprio di chi è familiare il domandare schietto, aperto, ardito fino al limite dell’irriverenza come ci mostrano a volte patriarchi e profeti, ma è il domandare di chi vuol sapere, conoscere, appropriarsi di ciò che ascolta.

“Di tutte, la domanda più promettente è quella che interroga sul passaggio del testimone da una generazione all’altra. ‘Se tuo figlio domani ti chiederà: che cosa sono le testimonianze, le leggi e gli statuti che il Signore nostro Dio vi ordinò?’ (Deuteronomio 6,20). Questa è la chiave, la pietra filosofale dell’ebraismo. È il modulo pedagogico della memoria, che risale alla culla nazionale, cioè il libro dell’Esodo. Per favore, figlio mio, domandami” (p.44)

(Daniele Mangiola - DiRS GBU)


domenica 2 novembre 2014

Quando anche gli atei hanno dei dubbi



T. Nagel Mind and Cosmos. Why the Neo-Darwinian Conception of Nature Is Almost Certainly False, Oxford University Press, 2014.


Sul dibattito e sulla questione del rapporto tra scienza e fede e sulle conclusioni che alcuni naturalisti neo-darwiniani traggono dalla teoria dell’evoluzione si è parlato già molto in questa rubrica, sempre scrivendo o su quanto affermavano gli atei (abbiamo parlato di Dawkins, Odifreddi, di quanto scritto in Italia dai collaboratori dalla rivista Micromega), sia dal punto di vista dei credenti (McGrath e altri). Non abbiamo mai accennato, invece, che il riduzionismo naturalistico, pacificamente accettato da Dawkins e i suoi discepoli (Odifreddi e Pievani in Italia) non sempre ottiene lo stesso successo nel campo filosofico da parte di coloro che non sono credenti. Lasciando da parte le considerazioni di Stephen J. Gould in merito all’applicazione filosofica del neo-darwinismo fatta da Dawkins o di quanto affermato da studiosi e scienziati come Piatelli Palmarini e Fodor ne Gli errori di Darwin, vogliamo soffermarci invece, su un saggio più propriamente filoosofico scritto un paio di anni fa dal filosofo analitico Thomas Nagel e che si intitola Mind and Cosmos. Why the Neo-Darwinian Conception of Nature Is Almost Certainly False (Mente e Cosmo: perché la concezione neodarwiniana della natura è quasi sicuramente falsa), pubblicato dalla Oxford University Press.

Nagel, filosofo che normalmentre si occupa di filosofia morale e politica, ha voluto entrare con questo testo nel campo della metafisica (dove in realtà si era già cimentato parlando del nesso corpo-mente), valutando il “sistema filosofico” (tale deve essere considerato dei neo-darwiniani - la distinzione che Nagel fa tra loro e lo stesso Darwin è la stessa che viene effettuata, per esempio da Alistair McGrath in Dio e l’evoluzione) sulla base di alcune questioni che si ritengono fondamentali e che, a parere del pensatore americano, mettono in crisi tale visione del mondo. Dopo aver introdotto il testo affermando che il darwinismo non può essere considerato una filosofia, ma una teoria scientifica, e ribadito che, rispetto alla questione del divino lui si schiera dalla parte degli agnostici e che il metodo naturalista proposto dai neo-darwiniani non coglie tutta la realtà ed ha alcune fallacie di tipo logico, in quattro capitoli scritti con il tipico rigore dei filosofi analitici (le note sono veramente poche nel testo perché il tentativo è di dire tutto in una maniera chiara e inattaccabile) affronta quattro diversi argomenti: la questione del rapporto tra riduzionismo e ordine naturale, il problema dell’esistenza di una coscienza che trascenda il dato meramente materiale, la conoscenza ed il valore delle azioni morali.

Il testo parte giustamente dal caposaldo dei neo-darwiniani: l’idea che tutto quanto accade possa essere spiegato (se non adesso, in un futuro piuttosto indefinito) dall’ordine naturale e da come si è sviluppata la natura durante il processo evolutivo. Nagel, pur affermando di credere che ci sia stato un progresso evolutivo, ritiene che tutto questo non possa spiegare pienamente cosa accade nella natura ed afferma che risulta piuttosto difficile ed arduo e che talvolta, per ipotizzare una spiegazione ci si affida troppo al caso ed alla questione dell’adattamento. Il filosofo cerca anche di mostrare come le leggi della fisica (anche nel campo quantistico) seguano un ordine diverso da quello implicito nell’ordine neo-evoluzionistico e che, proprio per questo motivo, non possiamo parlare di un preciso, attendibile e vero ordine della natura seguendo il dettato neo-evoluzionista.

Le obiezioni dello studioso americano diventano ancora più pressanti nei capitoli successivi. Quando inizia a parlare della coscienza, si oppone in maniera chiara all’idea che mente e cervello possano essere perfettamente coincidenti, ritenendo che i processi decisionali presenti nella nostra coscienza (ritorna all’uso tradizionale di questo termine quasi riprendendo il ruolo che la coscienza aveva in Hegel, ma tenendo ben presente quanto affermavano Popper ed Eccles negli anni 1970) non possano essere spiegati con semplici impulsi elettrici provenienti dai nostri impianti neuronali, ma che ci sia una sorta di trascendenza dell’essere umano e del suo sviluppo. 

Anche la volontà di conoscere, di ampliare i propri orizzonti culturali non può essere vista come un semplice fatto adattativo spinto da circostanze naturali e puramente casuali. La conoscenza è un procedimento complesso che ha a che fare con diversi fattori che non possono essere spiegati solo dalle scelte più vantaggiose e che portano ad azioni che a lungo andare possono essere viste come interessate, ma talvolta vi sono maniere di conoscere apparentemente disinteressate.

Proprio per questo motivo, Nagel ritiene che anche l’azione morale travalichi le costatazioni del neo-darwinismo. In una logica riduzionista a cosa servirebbero le azioni disinteressante, quelle che vengono fatte a prescindere dai meri calcoli utilitaristici. Il filosofo non arriva a negare la possibilità di una morale basata su assunti neo-darwiniani, ma pensa che una tale morale non porterebbe gli uomini a comportarsi in maniera tale da agire in maniera efficace nel mondo.
Questi gli argomenti portati avanti da Nagel. Cosa dire del testo? Il libro (non tradotto in Italia, dove sembra che avere un parere diverso dai neo-darwiniani nel campo laico sia diventato “fuori moda”) porta avanti argomenti che, a nostro parere, sono efficaci da un punto di vista filosofico e mostrano che il neo-darwinismo, oltre che da un punto di vista teologico può essere attaccato anche da un punto di vista fiosofico, mostrandone le sue debolezze. L’approccio di Nagel è inoltre interessante perché non si tratta di un filosofo “scettico” sulle possibilità che vengono date dalla conoscenza scientifica, ma che crede fortemente che la scienza possa dare un orizzonte di senso. Per questi motivi quindi riteniamo quello di Nagel uno dei migliori saggi scritti sull’argomento affiancabile a quanto Alvin Plantinga (da un punto vista teistico) ha affermato in Where the Conflict Really Lies,              

 (Valerio Bernardi - DIRS GBU)

lunedì 6 ottobre 2014

Israele l'esiliato

Lunedì letterario del 6 Ottobre 2014


D. Di Cesare, Israele. Terra, ritorno, anarchia, Bollati Boringhieri, Torino, 2014, pp. 105, € 12,50

(Daniele Mangiola)

Continua, sempre, Israele, ad essere al centro delle attenzioni del mondo. La questione palestinese divide e continua a dividere. Da un lato coloro che difendono Israele a oltranza, difendono il suo diritto alla terra e alla sovranità, che denunciano nella ribellione/resistenza dei palestinesi un disegno anti-Israele ben più vasto in cui i diritti dei civili sono soltanto un paravento ad arte usato per fini ben più bellicosi. Dall’altro lato coloro che considerano Israele alla stregua di un invasore, uno dei tanti potenti della terra che opprime, con il solo diritto acquisito della forza, una popolazione a cui ha strappato il diritto alla terra e alla sovranità, che denunciano dietro Israele il solito grande vecchio gioco degli interessi economici e politici di una ristretta classe di privilegiati.

Il nome “Israele”, è “attraversato da un’ambiguità semantica” (p. 9), dice Donatella Di Cesare in Israele. Terra, ritorno, anarchia, edito quest’anno da Bollati Boringhieri. Non semplicemente uno stato, un’entità politica, Israele è prima di tutto un uomo, Yakov, che ha sfidato Dio, e dopo lui tutti i suoi discendenti. La storia del Libro è la storia di Israele, il suo destino, inscindibilmente teologico e politico. È utile, per seguire l’intento della Di Cesare, indagare le tre parole del titolo: “terra”, “ritorno”, “anarchia”.
 
Terra: Popolo nomade, esiliato, scacciato, in fuga, nascosto tra gli altri, pellegrino e profugo, rifugiato e straniero, Israele ha conosciuto tutte le terre del mondo eppure Eretz sta al centro della sua storia, della sua essenza, della sua spiritualità. Su cosa si fonda la pretesa rivendicata sulla terra di Palestina, oggi? “Eretz Yisrael non è una terra ancestrale, non è rivendicata come terra-madre… in nessuna epoca della storia di Israele questa terra è stata semplicemente possesso del popolo” (p.48). Eppure in nessun tempo, in nessun luogo, Israele ha smesso di rivolgere il proprio pensiero alla terra promessa. Ma una terra promessa è una terra a cui si giunge da fuori, come uno straniero. Eretz è dunque meta da sempre attesa, luogo di approdo, ma proprio per questo “inappropriabile” (p. 42). Ma questo destino originario non è in fondo il destino di tutti i popoli? Quale gente o etnia non ha rubato, conquistato, occupato, ad un certo momento della propria storia, la terra che abita? “Perché ogni popolo è invasore di una terra che non gli appartiene e che può abitare solo se serba il ricordo della sua estraneità” (p. 42).

Da sempre Israele è l’esiliato, il senza terra e la vicenda dello Stato di Israele passa attraverso la vicenda del sionismo. Con lucidità i teorici del sionismo, tra cui Theodor Herzl compresero che l’affermazione dell’identità ebraica doveva passare dall’appropriazione della terra. Per ottenere il riconoscimento delle altre nazioni bisognava rinnegare la propria unicità diventando una nazione “normale”.

La Di Cesare ricorda l’evoluzione del sionismo e le sue diverse correnti, le voci critiche (Buber, Roth, Arendt) che dall’interno compresero il rischio della tentazione alla rinuncia della propria identità (p. 24). Il sionismo non doveva essere inteso come un nazionalismo. “Le patrie che gli stati-nazione hanno costruito per i popoli si sono rivelate trappole senza uscita” (p. 40). Essere senza patria, essere straniero, oggi, significa essere senza diritti.

In faccia al mondo, invece, diverso è il destino del popolo ebraico. Il Libro sempre gli ricorda la sua condizione di straniero e in nome di essa ribadisce ovunque e sempre il diritto dello straniero.
Politicamente parlando, oggi, la soluzione dei due stati, proposta da molti, Palestina e Israele, non risolverebbe la questione in quanto rimarrebbe all’interno della prospettiva del diritto di possesso, di appropriazione della terra, della differenza tra autoctono e straniero. Come è, dunque, come può realizzarsi un “abitare altrimenti”, “abitare nell’estraneità”(p.45), che non consideri la terra come possesso esclusivo e discriminante, non solo per Israele, ma in ogni angolo del mondo?

“Il compito del popolo ebraico è molto concreto: santificare la terra costruendo una società giusta” (p. 52)
Ritorno: Nei lunghi secoli di esilio mai Israele ha dimenticato la propria terra. “Il popolo nomade e disperso non ha mai smesso di aspirare al ritorno” (p. 17). Un ritorno che non può essere in alcun modo considerato un “rimpatrio”, in quanto si tratta della terra promessa, non luogo di origine, ma già di per sé luogo d’esilio, al quale Abramo si dirige dopo aver accettato il comando di abbandonare la terra natìa. La tentazione potrebbe dunque essere quella di dimenticare il proprio destino di errante ed “esibire una volontà di dominio e non una disposizione all’ospitalità” (p. 47). 

Perciò il ritorno non può essere inteso come un ritorno alla propria origine, al passato, bensì come un riappropriarsi della promessa, che proprio perché promessa non può che essere volta al futuro. “È come se, nella storia dei popoli, che lungo i secoli sono andati spartendosi i territori, Israele abbia fatto ritorno per disturbare quella spartizione, per contestarla nel mezzo delle frontiere, proprio su quella terra. Segno profetico di un passaggio della Trascendenza fra i popoli” (p. 45). Dunque il ritorno è riparazione, e se il riferimento è la comunità antica non è però nel senso di una semplice restaurazione: “tornare vuol dire piuttosto andare oltre” (p. 67).

Perciò il ritorno non si conclude con l’insediamento nella terra promessa, ma il destino è quello di realizzare quell’abitare altrimenti, “che infranga il sistema degli stati-nazione e dischiuda, nel solco terrestre e celeste della giustizia, un nuovo ordine del mondo” (p. 52).

Anarchia: Per quella sua originaria ambiguità, Israele non è semplicemente una nazione, ma è anche la comunità dei discendenti di Yakov, dunque,“quanto più il popolo si riconoscerà in una alleanza, tanto più porterà Sion nel mondo, redimerà i popoli” (p. 77) e se gli stati-nazione si sono rivelati delle gabbie con le loro pretese di dominio sulla terra e sui popoli, può essere giunto il tempo di una nuova testimonianza di come essere comunità, disinnescando i tradizionali poteri dello Stato. Una comunità profetica, perché fondata sul Libro “intessuto di discorsi sovversivi, che ha sfidato apertamente sovrani e imperi” (p. 53).
Qui è Buber il principale riferimento della Di Cesare. Nessuna forma di governo, per quanto rivoluzionaria può portare alla redenzione, il tempo messianico non è alla fine del tempo, non è il risultato di un progresso, è invece una rottura, un’interruzione del tempo, l’irruzione del nuovo. Un’idea già contenuta nella tradizione ebraica, nella Torà e nei profeti (p. 65). Ed è evidente che il Regno del Messia non può essere un regno umano. La teocrazia si è fondata sull’indole anarchica di questo popolo nomade dalla “dura cervice”, incapace di sottomettersi e che si è piegata soltanto al suo Redentore, suo unico Melek, laddove gli altri popoli avevano un melek umano.

Il nuovo ordine del mondo passa attraverso un ritorno alla comunità intesa come lo spazio del noi, della condivisione, in opposizione al mondo contemporaneo, atomizzato, centrato sull’individuo.
Il terzo capitolo del libro è dedicato dalla Di Cesare ad una “escatologia della pace” (p.86), una riflessione su come ripensare il conflitto israelo-palestinese per non vederlo appunto più come un conflitto.
Il pensiero occidentale ha sempre visto la pace come la fine della guerra. Non è riuscita mai a liberarsi dal luogo comune della pace come negazione della guerra. Se la pace è il fine della guerra, se non è possibile raggiungerla se non attraverso il conflitto, allora la pace, in una visione progressista è il compimento della guerra. Come uscire da quest’ottica? Come andare “al di là dell’ontologia della guerra” (p. 98)?
Qui è Levinas, soprattutto, il punto di riferimento della Di Cesare. L’altro irrompe nella prospettiva dell’io e si impone con la sua differenza assoluta. La preoccupazione per l’altro e non la preoccupazione per me, è il gesto etico di evasione dalla totalità, l’al di là della guerra. L’irruzione dell’altro interrompe il tempo dell’io. In una prospettiva messianica la pace non è da intendersi alla fine del tempo della guerra, è una rottura del tempo, un’irruzione del “nuovo a-venire”, “l’irruzione, nella storia, della pace messianica” (p. 99).

La pace, shalom (p. 103), non può darsi senza la giustizia. Non è dunque l’opposto della guerra, e non può imporsi con l’uso della violenza e delle armi.