domenica 29 novembre 2015

Nel mondo di Katniss




Novembre è il mese, insieme a quello natalizio, dei blockbusters cinematografici nel mondo occidentale. E’ così è stato anche quest’anno: la multinazionale cinematografica ha tirato fuori prima Spectre, probabilmente l’ultimo 007 con Daniel Craig e poi, qualche settimana dopo, Il canto della rivolta 2 che chiude la saga di Hunger Games, basata sulla trilogia dell’autrice americana Suzanne Collins che, almeno in parte, è riuscita a sostituire nel cuore degli adolescenti i romanzi di Harry Potter.
La storia è nota ai più: i tre romanzi delineano quella che classicamente si chiama una distopia, ovvero racconta una storia, ambientata in un mondo futuro-immaginario, in cui il regime politico risulta essere oppressivo e tenuto insieme da un despota, un Presidente di nome (i cognomi che ha usato la Collins talvolta sono allusivi) Snow.
Accanto all’uso classico della distopia vi sono delle varianti, che potremmo definire tipicamente postmoderne: i giochi di sacrificio (gli Hunger Games) che derivano da una tradizione classica (è chiaro il richiamo alla vicenda di Teseo e di Atene e degli Orazi e Curiazi di latina memoria) sono stati multimedializzati e, a parte le simulazioni che vengono appositamente costruite per i giochi, la cosa più importante è che vengono trasmessi in mondovisione, diventano qualcosa che supera di gran lunga i giochi circensi classici, , in quanto visti dal mondo intero e apprezzati dalla maggior parte della popolazione abbiente del mondo.
L’altra caratteristica è la scelta dell’eroe: in un mondo in cui le ragazze hanno bisogno di modelli forti, Katniss Everdeen, la vera eroina della saga. è una donna che, nel frattempo diventa pienamente adulta, disposta al sacrificio di sè stessa e autonoma rispetto agli uomini che la circondano. Si tratta di una tipica eroina postfemminista che, pur mantenendo caratteristiche di genere tipicamente femminili, non disdegna ruoli di autonomia notevoli e, alla fine, è colei che conduce porta a termine la storia. Katniss, infatti, si  mostra, nei film e nei romanzi (pur con alterne vicende), molto più forte degli altri protagonisti maschili appartenenti al mondo adolescenziale e, in questo senso, è specchio fedele della società in cui viviamo e di cui, nonostante l’ambientazione futiristica, diviene una specie di icona.
Queste caratteristiche, insieme ad una accurata scelta degli attori (non ultima Jennifer Lawrence che incarna la stessa eroina), hanno fatto sì che un film per nulla banale divenisse un successo cinematografico di tipo globale.
Cosa dire della vicenda e di quanto sino ad ora raccontato da un punto di vista teologico e filosofico? Sicuramente la serie dei romanzi hanno un’idea di base molto forte che ha a che fare con l’importanza dell’individuo. Un solo individuo può riuscire (anche se coadiuvato da altri e soprattutto dai mezzi di comunicazione di massa) a cambiare le sorti di un’intero mondo: Katniss sembra incarnare in questo senso l’individuo cosmico-storico hegeliano. Ne sono consapevoli i tattici del gioco che vedono in Lei non solo la speranza (quella riposta dalle masse), ma colei che può veramente guidare la rivolta. L’altro aspetto che è preso in esame è quello della generosità ed del sacrificio. L’eroina del film inizia il suo percorso di rivolta perché vuole salvare la propria sorella: si tratta quasi di un sacrificio sostitutivo, molto simile a quello che deriva dalla tradizione cristiana e i partecipanti ai giochi ricordano il capro espiatorio, così ben studiato negli ultimi decenni da René Girard,
La vicenda politica nei romanzi e nei film si dipana nella maniera in cui è oggi percepita dalla maggior parte degli individui: un continuo intrigo ed imbroglio. I maggiori esponenti politici presentati, dal presidente Snow alla sua diretta avversaria, Coen, non hanno in loro nessun tipo di di idealismo, ma pensano di dover agire in maniera spietata per mantenere (nel caso di Snow) o ripristinare (nel caso di Coen) l’ordine. Per fare tutto questo si costruisce una società profondamente iniqua, in cui solo il centro, grazie, in realtà ad una militarizzazione spietata, riesce a vivere in prosperità, mentre le rimanenti masse vivono in miseria ed in uno stato di semischiavitù. Katniss, che proviene da uno dei distretti più poveri, rappresenta con la vittoria nei giochi ed il percorso che da lì inizia, il riscatto di queste popolazioni che hanno bisogno di maggiore giustizia.
La ricerca di giustizia è un altro degli elementi portanti del film. Essa alla fine prevarrà ed inizia a manifestarsi anche nei gesti quotidiani del Distretto 12, quando, ad esempio, Peta decide di lasciare del pane bruciato per la famiglia di Katniss piuttosto che darlo e diventa sempre più presente nel film, sino alla venerazione che la popolazione ha per la mockingjay, l’uccello che rappresenta la stessa Katniss.
Il film, anche l’ultimo (benché parta un po’ lentamente e risenta dell’idea di dividere il secondo romanzo in due film per fare cassetta). è altamente spettacolare e merita di essere visto al cinema, forse anche indipendentemente dalla lettura dei romanzi.
Vi sono però dei dubbi che sorgono al commentatore. L’Happy ending un po’ antipolitico era strettamente necessario? Alla fine sembra che la politica sia un affare che debba essere gestita da un’alterità che non abbia lo stesso senso di giustizia e di riscatto che può avere l’individuo. E’ proprio questa la politica? Sembra che, alla fine, ciò che conta è il destino individuale a scapito di quello della comunità che è importante sino ad un certo punto. Non è tutto questo molto contemporaneo e un po’ pericoloso come messaggio?
I romanzi ed il film, come del resto spesso accade, agiscono in un mondo etsi deus non esset. Le idee di giustizia, riscatto, redenzione sono ben presenti, in quanto radicate nella nostra cultura, ma appaiono come agenti nell’autonomia dell’uomo che si fa da solo. L’ideologia del sefl made man (in questo caso woman) rimane prevalente e forse denota la debolezza di un intreccio che rimane per la maggior parte valido e positivo.

                                                                   Valerio Bernardi - DIRS GBU


domenica 15 novembre 2015

Il difficile rapporto tra cultura, civiltà e politica

Avevamo deciso di pubblicare un Lunedì letterario dedicato ad un blockbuster come Spectre, l'ultimo film dedicato a James Bond e probabilmente lo faremo la prossima settimana. Ma in queste ore di attentati terroristici, in Occidente e non solo, ci è parso utile ricordare alcune delle nostre recensioni dedicate alla questione del rapporto con l'Islam.
Si tratta di recensioni scritte durante questi anni e sono riflessioni su libri molto diversi, scritti da persone di formazione culturale diverse che, però, si sono tutte interrogate sulle stesse questioni. 
Le inseriamo in questo post in ordine cronologico e non di importanza. Allo stesso tempo riteniamo che riflettere su queste cose sia necessario e come dice Zizek (del cui libro sull'Islam qui si parla) è necessario riflettere anche quando il cuore ed i sentimenti possono portare a non essere lucidi. Da credenti evangelici crediamo in un Dio di pace, e crediamo che lo Shalom sia l'essenza anche di quanto scritto nell'Antico Patto. Proprio per questo motivo è utile documentarsi, evitare gli schiamazzi dei social e cercare di comprendere a fondo quello che succede nel mondo e di capire quali possano essere le soluzioni.
VB





Non so a quanti di voi sia capitato di entrare in libreria per curiosare e di uscirne con almeno qualche libro, acquistato più che altro per averne letto il titolo e per avere sbirciato nella quarta di copertina. A me è capitato spesso e ciò è dovuto alla mia curiosità di lettore impenitente che cerca sempre qualcosa con cui confrontarsi, soprattutto negli scaffali della saggistica filosofica, storica e teologica. Questa è la maniera in cui mi sono imbattuto nel testo di cui parlerò, acquistato da me pensando che si trattasse dell’ennesimo attacco di qualche fondamentalista ateo al cristianesimo ed alle religioni in generale e scoprendo all’inizio della lettura che invece si trattava di un testo serio, scritto con un certo fascino e che concerneva la sociologia delle religioni. Il libro in questione è del sociologo francese Olivier Roy e si intitola La santa ignoranzza. Religioni senza cultura, pubblicato in Italia dalla casa editrice Feltrinelli.

Il saggio, che è scritto da un protestante francese che ha avuto nella sua vita anche una buona preparazione teologica di stampo liberale. Lo scritto, infatti, inizia con una testimonianza personale dell’A. che, ricordando i giorni della sua giovinezza. rammenta quando, all’interno del gruppo giovanile protestante che frequentava, si presentò un giovane convertito dell’area evangelical che ogni volta che entrava diceva “Dio ti salverà” e che dava scarsa attenzione alla lettura ed all’analisi del testo biblico, pur credendo nella sua infallibilità. Questo approccio del giovane, a parere del sociologo francese, rappresenta un ottimo esempio di quello che è chiamato deculturazione della religione e che, oltre che avvenuta all’interno del mondo evangelico, si è presentata anche in altre religioni, soprattutto negli ultimi decenni.

La tesi di Roy è piuttosto semplice. Le religioni (di cui non si dà una definizione precisa nel testo ma, da buon socioogo, si prende atto di quanto viene definito tale da coloro che si definiscono relgiosi) sono sempre e normalmente legate ad un mondo culturale particolare ed agiscono all’interno di quel particolare mondo; quando però vogliono conquistare altri ambiti devono per forza di cose deculturalizzarsi, perdendo in parte la loro peculiarità ma, in questa maniera divenendo più fruibili per un maggior numero di persone.

Il sociologo francese (riprendendo in parte anche le tesi di Peter Berger) ammette che il fenomeno del religioso, anche in Europa, ma soprattutto in tutto il mondo, riemerge prepotentemente dopo che per qualche decennio si era affermato che si trattava di un qualcosa al tramonto in una società sempre più secolarizzata. La sua idea però è che si tratti di una religione profondamente diversa da quella che è stata professata in tutto il mondo sino al XIX secolo. Secondo quanto ipotizzato, infatti, qualsiasi religione (anche quelle di stampo più universalistico come il Cristianesimo e l’Islamismo) si è sottoposta ad un processo di inculturazione, adattandosi all’ambiente che la circondava e diventando propria di quell’ambiente. Gli esempi che sono riportati nel testo sono molteplici, ma si concentrano soprattutto sui concetti di etnia e nazione. Viene ribadito infatti che questi due concetti fondamentali per qualsiasi divisione umana, hanno anche diviso le religioni e talvolta hanno reso alcune di esse profondamente radicate nella società in cui sono sorte o si sono diffuse. Ad un certo punto della storia, però, quando le culture si sono incontrate e, a partire dalla fine del XIX secolo il mondo è diventato una “piccola sfera”, le religioni hanno profondamente mutato la loro identità, si sono deculturate.

Questo processo di deculturazione (che porta a quel fenomeno della santa ignoranza, della non indispensabilità della conoscenza della cultura da cui è sorta una religione o in cui si è sviluppata) è diventata ancora più marcata nella nostra età, quella della globalizzazione. La religione si è aperta al mercato e per questo motivo è diventata più accessibile alla gran massa dei consumatori che possono liberamente scegliere a quale credo accedere e trovarne la confezione adatta per lui. Lo studioso francese non condanna questo nuovo atteggiamento ma, da studioso delle società complesse,, lo descrive mostrandone il cambiamento ed il mutamento, in atto proprio durante gli ultimi decenni. Una tale apertura al “mercato” ed al gradimento dell’individuo da parte delle diverse religioni porta ad una loro omogeneizzazione ed al fatto che tutte quanto cercano di rispondere alla soddisfazione del sè e dell’individuo che ben le accoglie come risposta ad alcuni suoi bisogni. Queste le tesi del libro che riporta molteplici esemplificazione ed è dotato di una buona documentazione che mostra che Roy è un profondo conoscitore delle problematiche affrontate, sapendo distinguere anche tra le varie sfumature di un fenomeno particolarmente complesso..

Come valutare il testo, la tesi e la proposta di Roy. Personalmente penso che sia uno dei testi scritti da un sociologo francese sulla religione con più cognizione di causa: le radici protestanti dell’A. aiutano a districarsi nelle diverse prospettive del problema. Rimangono però dei dubbi sulla lettura proposta: Roy sembra tutto sommato un nostalgico cui non piace il cambiamento subito dalle religioni, pur ammettendo che le religioni nel XXI secolo ed una maggiore libertà di scelta, sono di qualche giovamento per gli individui che non sono costretti a scegliere a quale Dio credere solo perché appartengono ad una certa cultura. Il testo poi non è molto chiaro nella valutazione del fenomeno: pur comprendendo che si tratta di un’analisi sociologica che vuole essere avalutativa, sarebbe stato il caso di far comprendere meglio la propria idea. Un altro appunto che si può fare al saggio è quello della leggibilità: talvolta le parti sono piuttosto ripetitive e le numerose esemplificazioni fanno perdere il filo logico e disperdono quelle che sono le interessanti tesi dell’A. Manca anche un approccio che tratti della questione religiosa come fenomeno globale e sembra molto spesso che, benché Roy conosca molto bene il mondo extraeuropeo, la sua prospettiva, oltre che agli studi europei, rimanga ancorata ad una concezione eurocentrica del problema.

Il libro, comunque, rimane un’interessante lettura ed una buona fonte di informazioni.

Valerio Bernardi – DIRS GBU




Dopo l’11 settembre 2001 il rapporto tra cristianesimo e islam è diventato sempre più teso anche a causa di diversi problemi che, in realtà, erano già presenti sullo scacchiere internazionale e che derivano anche da travagliati rapporti secolari: la questione mediorientale, il rapporto di dipendenza delle democrazie occidentali dal petrolio dei paesi islamici, una certa aggressività presente nei paesi islamici nei confronti del crisitanesimo, la tensione creata in Occidente da una massiccia emigrazione di popolazione proveniente da paesi islamici, uno scacchiere internazionale che, dopo la caduta del Muro di Berlino e dopo gli scoppi dei primi conflitti a sfondo etnico-religioso nella ex Jugoslavia sembrava far emergere un mondo caratterizzato dallo scontro di civiltà come ipotizzato dal politologo Samuel Huntigton. In questa nuova prospettiva (in cui era ed è coinvolto tutto il mondo occidentale) anche i cristiani si sono ritrovati ad affrontare un problema che, nel mondo mediterraneo ed in Europa, era già ben presente sino al XVI secolo e che solo dopo era passato in secondo piano: come si può riuscire a convivere con una religione monoteistica aggressiva e concorrenziale rispetto al messaggio annunciato da Cristo? Le risposte date dalla storia sono state molteplici e, in un periodo in cui l’ostolità sembra aver prevalso spesso da entrambe le parti, è difficile pensare ad un dialogo aperto e sincero, senza dover temere rappresaglie o fraintendimenti.

Il libro che presentiamo questa settimana è uno dei più discussi tra quelli pubblicati quest’anno nel panorama evangelico e molti esponenti appartenenti a questa parte del cristianesimo non hanno visto di buon occhio quello che l’A. afferma. Proprio per questi motivi ci è sembrato necessario parlarne perchè lo studio del teologo croato Miroslav Volf, Allah: A Christian Response, pubblicato da HarperCollins, merita attenzione quanto meno per la proposta che viene portata avanti e per il percorsoche, seppur non scevro da critiche, rimane sicuramente stimolante e sollecitante per il lettore.
Il volume inizia con una dedica al padre di Volf, pastore pentecosale in Croazia che credeva fermamente che cristiani e musulmani adorassero lo stesso Dio. Una seconda precisazione, ancora più importante viene fatta nella prefazione. Si afferma che il testo è scritto essenzialmente per i cristiani e non per i musulmani e che si tratta di un’opera di teologia politica che non vuole entrare nel merito delle questioni concernenti il piano di salvezza, l’autenticità del messaggio, la centralità dell’opera salvifica di Cristo (cosa scontate per Volf) quanto riflette sulla possibilità di trovare un accordo di massima tra le due più grandi religioni monoteiste per cooperare insieme al bene comune.

L’origine della ricerca ha un punto di partenza chiaro: dopo l’attentato alla Torri Gemelle Volf, che dirige il Centro per la Fede e la vita pubblica all’università dell’università di  Yale, si è chiesto se fosse possibile trovare delle basi per la riconciliazione dopo una ferita così grave. Per questo motivo l’indagine prende le mosse da quello che è successo dopo nell’ambito teologico e da come alcuni leader del mondo musulmano hanno reagito al discorso che Benedetto XVI fece a Ratisbona nel 2006 dove sembrava che si affermasse che l’Islam fosse una religione non razionale che fomentava odio, rispetto a quella cristiana. Volf afferma che il discorso ratzingeriano (che tra l’altro prendeva spunto da uno scritto dell’imperatore bizantino Michele Paleologo) rappresenta una delle due possibili intepretazioni dell’Islam da parte dei cristiani, quella che pensa che essa sia una religione totalmente differente dal cristianesimo. A questo atteggiamento (che nella storia ricorre molto spesso nel Rinascimento e nel Medio Evo) si allinea, a suo parere anche l’evangelismo tradizionale con autori come John Piper, il quale afferma chiaramente che Allah è una divinità diversa dal Dio cristiano.

Partendo da questi assunti, Volf, tenendo conto dei dialoghi che lui stesso ha intrapreso con alcuni pensatori islamici (di cui il più importante è senza dubbio il principe filosofo Ghazi bin Muhammad, reggente di Giordania in assenza del re Abdullah e principale autore di una risposta inviata a Benedetto XVI e, coature, con Volf di un testo che raccoglie il dialogo cristiano-islamico tenutosi qualche anno fa a Yale), dice di appartenere a quella fazione di cristiani tradizionali che ritengono che Allah sia lo stesso Dio adorato dai cristiani e dagli ebrei e che rintraccia quest’idea anche in altri pensatori cristiani nella storia. I due maggiori autori di riferimento sono in questo caso il filosofo Nicolò da Cusa e Martin Lutero. Di Nicolò da Cusa si riprendono le idee concilianti e la sua discussione sul fraintendimento da parte degli islamici del Dio trinitario e da Lutero la sua analisi teologica che, pur condannando la religione islamica, ammette la coincidenza della divinità.

Al centro del testo, dopo questa premessa storico-teologica, vi è la discussione dei punti comuni tra islamismo e cristianesimo. Lo studioso di Yale ribadisce nella parte centrale del testo che gli attributi che sono dati a Dio nelle due religioni sono simili e che, benché vi sia una apparente differenza tra il Dio trinitario che diventa uomo in Cristo ed il distante Allah che può essere definito più per via negativa, le apparenti differenze provengono da diverse maniere di intendere il linguaggio religioso e da fraintendimenti sorti tra esponenti delle due religioni. L’altro punto comune tra Islam e Cristianesimo, a parere di Volf, è la profonda fede in un Dio d’amore e misericordioso. Queste basi comuni (che nel testo sono ulteriormente specificate e approfondite) portano il teologo croato ad affermare che si possa tentare di collaborare insieme, perdonandosi per quanto successo sinora, per il bene comune degli Stati in cui si convive e dell’umanità più in generale. Non sono nascoste le difficoltà e le proposte (la libertà di potersi convertire l’un l’altro in un libero e schietto dialogo possibile in ogni paese dove sono presenti le due religioni) talvolta appaiono una prospettiva futura più che una realtà, ma il testo si conclude con la speranza che cristiani e musulmani, continuando la loro opera di conoscenza reciproca, possano poi fondare delle società tolleranti, democratiche e aperte a tutti i cittadini liberi di agire con generosità e amore tra loro.

Il testo, nonostante l’alto livello della documentazione e la profondità dei ragionamento espresso, si legge con scorrevolezza ed è scritto in maniera molto chiara. La proposta finale di Volf è altrettanto chiara. Va apprezzata la profondità della ricerca e la grande capacità da parte del teologo croato di far conoscere aspetti della religione islamica che talvolta gli occidentali ignorano. A nostro parere, benché ci sentiamo di condividere le conclusioni e le prospettive future presenti nel libro, le debolezze sono proprio nelle sue basi dogmatiche: l’idea che Allah sia Elohim e che gli islamici parlino dello stesso Dio dei cristiani e degli Ebrei è un fatto, a nostro parere, cristallino, il problema è nella questione della misericordia e dell’Amore di Dio. Lo stesso Volf è disposto ad ammettere che l’Amore di Dio non sembra essere chiaramente insegnato dal Corano e per trovare l’epiteto di Dio come misericordioso deve fare appello alla mistica islamica medievale, ammettendo di fatto che il Corano, il testo sacro, non parla di questo. Nonostante queste critiche il libro va letto da tutti coloro che sono interessati alla questione e rimarrà una pietra miliare nel pensiero della teologia delle religioni quando essa è intesa non tanto come paragone tra possibili vie di ricerca della Verità assoluta, quanto come ricerca del bene comune e della pace e la riconciliazione tra i popoli.

                                                                                              Valerio Bernardi - DIRS GBU



Se qualcuno mi chiedesse chi sia oggi il maggiore filosofo vivente avrei dei dubbi a dare una risposta certa (è tipico dei filosofi). Se, però, mi chiedessero chi sia il filosofo più pop oggi non avrei alcun dubbio nella risposta e direi Slavoj Zizek. Zizek è probabilmente il pensatore più conosciuto al mondo, quello più presente nei dibattiti televisivi, nei giornali e nei social media (provate a cliccare il suo nome su youtube, ad es.). Irriverente, politcamente scorretto (continua, tra l’altro, a definirsi “comunista” pur ammettendo che Hegel è più grande di Marx), forse talvolta sin troppo provocatorio, rimane comunque, nonostante la onnipervasività delle sue posizioni ed una facilità di scrittura eccessiva, un grande pensatore.
Il libriccino pubblicato da Ponte delle Grazie intitolato L’Islam e la modernità. Riflessioni blasfeme,  si presenta come un vero e proprio pamphlet composto di due capitoli, l’uno derivante dalle riflessioni che il pensatore sloveno ha fatto dopo l’attentato in Francia alla redazione della rivista Charlie Hebdo, l’altro, di qualche anno addietro, frutto di una riflessione su ciò che è chiamato l’archivio dell’Islam, usando una tipica espressione lacaniana, dove la parola archivio designa ciò che è depositato nella nostra psiche e che forma gli archetipi del nostro comportamento.
Il primo testo, frutto di un ampliamento di un articolo che Zizek ha pubblicato sul Guardian, invita le persone a pensare anche a caldo rispetto ad un avvenimento di pochi giorni. Per il filosofo solo il pensiero ci permette di superare lo sgomento. Zizek nell’articolo vuole dimostrare tre cose: in primis, che gli islamici che hanno fatto l’attentato alla redazione francese non sono fondamentalisti; in secondo luogo, non sono dei barbari medioevali; in terzo luogo, hanno paura di ciò che rappresenta l’Occidente.
Per Zizek, infatti, il fondamentalismo è quello degli Amish, ovvero di coloro che rimangono ancorati alle loro tradizioni e che vogliono vivere isolati dal resto del mondo. Gli attentatori di Parigi, invece, vogliono convertire il mondo e vogliono reagire ad esso. Non si tratta di persone immerse nel Medio Evo, perché gli attuali fondamentalisti islamici usano tutti i mezzi moderni di comunicazione ed amano la modernità: vivono come in un perenne videogame dove sparare è diventata una cosa naturale.
Il secondo capitolo è di più difficile lettura ed è frutto di alcune riflessioni che il pensatore sloveno aveva fatto qualche anno addietro. Usando le tecniche psicoanalitiche di stampo lacaniano, si cerca di descrivere le caratteristiche tipiche della religione islamica e ciò che la rende differente dalle altre religioni monoteiste. Per Zizek l’Islam è la religione dell’abbandono anziché dell’accoglienza, come abbandonati e rigettati sono stati Agar e Ismaele, frutto non della volontà divina, ma della volontà dell’uomo. Riprendendo il racconto biblico della Genesi si vuole mostrare come già l’archetipo fondativo sia generatore d’ansia. Accanto a ciò, si fa notare come il dubbio sulla formazione della nuova Parola di Dio (il Corano) sia sempre presente il dubbio della tentazione diabolica e dell’entrata del male, cui l’uomo non ha nessuna capacità di reagire. Il rapporto Dio-uomo, quindi, risulta diverso tra Ebraismo e Cristianesimo da una parte e Islamismo dall’altra, dove il Dio appare molto più impersonale e distaccato. Queste caratteristiche, a parere, del filosofo sloveno, rendono l’Islam una religione più ansiogena rispetto alle altre due e che, per questo motivo, rischia di generare fenomeni come quelli avvenuti negli ultimi decenni.
La lettura di Zizek, come sempre, risulta interessante e provocatoria. Egli, infatti, ritiene che gli attentatori di Parigi siano fortemente attratti, come tutti, dai “valori” e dagli apparenti benefits dell’Occidente. La ferocia con cui si abbattono nei confronti di certe manifestazioni sono più sintomo di questa attrazione/repulsione che di un respingimento integrale. Il problema, quindi, sarebbe intrinseco alla stessa religione ed al suo ambiguo rapporto (oggi, non ieri) con il mondo capitalistico e con le sue possibilità. Ecco perché per rispondere ci vuole una filosofia radicale ed un’alternativa realistica all’odierna società neoliberale.
La lettura va consigliata proprio per la visione “eccentrica” di Zizek che non si preoccupa del politically correct. Alcune sue analisi sulla religione rimangono discutibili, fatte da una prospettiva atea ma rispettosa del fatto religioso.

                                                                                  Valerio Bernardi - DIRS GBU                     

domenica 8 novembre 2015

L'ebraismo e il futuro

J. Attali, Dizionario innamorato dell'ebraismo, Roma, Fazi, 2013
Recensione di: Daniele Mangiola

All'inizio l'appellativo “cristiani” non aveva nulla di onorevole, era un modo derisorio con cui si indicavano quei gruppi che professavano e predicavano del fatto che il Messia fosse finalmente giunto. Erano quelli fissati con questa storia del Cristo (Messia, in greco), i cristiani. Niente più.
Allo stesso modo “marrani”, che significa porci, in spagnolo, erano quegli ebrei che accettavano la conversione obbligatoria al cristianesimo, nel XV secolo, ma di nascosto rimanevano ebrei e continuavano a vivere secondo gli insegnamenti della Torah: bisognava scovarli, farli uscire allo scoperto, questi marrani, poi torturarli, farli confessare, poi ucciderli. In seguito “marrani” saranno tutti quelli discendenti dagli ebrei convertiti (convinti, forzati, fasulli e tutte le combinazioni possibili) di Spagna.
Di storie di marrani che hanno influenzato in ogni modo la politica, la scienza, la cultura, la storia, la società ad ogni latitudine in ogni epoca successiva fino ai giorni nostri, sono piene le pagine del Dizionario innamorato dell'ebraismo, di Jacques Attali, edito in Italia nel 2013 da Fazi.
Attali, nato ebreo d'Algeria e poi costretto con la famiglia ad abbandonare la terra di nascita alla volta della Francia negli anni 50. Considerato oggi uno degli intellettuali più influenti del mondo, economista prestigioso, è stato più volte consulente dei presidenti della repubblica francesi, Mitterand, prima, Sarkozy poi.
Del giudaismo di cui si dichiara innamorato, l'A. dice: «Amo il modo in cui mi fa riflettere, come molte altre grandi cosmogonie, sulle grandi costanti del mondo; amo anche le vicende di tanti personaggi della Bibbia e della storia, fedeli alla propria fede anche quando vengono costretti ad abbandonarla; amo anche quelle piccole storielle che sono dette “ebraiche”, illuminanti autoderisioni. Infine, o magari soprattutto, apprezzo nel giudaismo che esso non sia affatto geloso, ma tolleri molti altri amori». Costantemente impegnato ad adattarsi alla cultura ospitante, ad integrarsi e spesso a mimetizzarvisi dentro, eppur sempre con l'obiettivo preciso di non sciogliersi e disperdersi in questa, quale che sia stata, accogliente oppure ostile, il giudaismo ha maturato una modalità di essere plastico e dinamico, continuamente mutevole eppur sempre intensamente uguale a se stesso col passare dei secoli.
Il testo di Attali è un viaggio affascinante attraverso la storia, durante il quale si incontrano nomi di personaggi (Luria, Abrabanel, Perutz), di opere (Zohar, Guida dei perplessi), di figure bibliche (Abele, Mikal, Gesù) e il cammino dell'umanità si rivela al lettore da un diverso punto di vista.
Ad ognuna delle diverse terribili prove della storia, destinato ogni volta all'estinzione, l'ebraismo risorge miracolosamente dalle proprie ceneri.
«Io non ho scritto questo libro da credente o da ateo» scrive l'A. ma «la Bibbia è l’inevitabile matrice dell’ebraismo» e dunque è onnipresente tra le pagine del Dizionario. È affascinante osservare il rapporto di familiarità che gli ebrei hanno con i testi sacri, l'audacia con la quale li esplorano alla ricerca di nuovi orizzonti di senso. Così la riflessione sul tempo che si legge alla voce «Qoelet», i ritratti di Mikal, di Abele, offrono degli spunti di meditazione estremamente interessanti. «Gesù è un grandissimo ebreo. Chi, tra i cristiani, accetta questo fatto? Chi, tra gli ebrei, se ne ricorda?».
La forma del dizionario permette una lettura rilassata in quanto ciascuna voce è autonoma rispetto alle altre, e può essere letta singolarmente ma è difficile resistere al fascino di leggere l'opera per intero, il talento di scrittore di Attali è decisamente elevato.
In quanto dizionario «innamorato» non ha la pretesa di raccontare le cose più importanti ma semplicemente quelle che più stanno a cuore all'A. legate alla sua esperienza di vita. È dunque un'opera il cui dichiarato fine è divulgativo, e d'altronde è proprio come divulgatore che il talento di Attali brilla in modo particolare.
Interessante anche un'altra idea che scorre e si rivela qui e là per il testo, sulla fondamentale importanza che hanno avuto gli ebrei per la storia economica del mondo e degli stati e di come l'idea del tempo e la responsabilità umana sulle cose del mondo tipica dell'ebraismo sia stata determinante per l'economia moderna: «Per gli altri due monoteismi, il futuro appartiene solo a Dio, l’uomo non può farne commercio, ed essi rifiutano di far pagare un tasso d’interesse. Ne deducono che il mestiere del banchiere è una profanazione della legge divina». Al contrario invece è importante che l'uomo impari ad amministrare le proprie risorse nel tempo in base all'importanza e all'urgenza ed è su questo tipo di valutazione responsabile che si fonda il principio del tasso d'interesse.
Essere innamorati dell'ebraismo è oggi una cosa impopolare. Si levano da ogni parte accuse contro questa cultura che, a quanto pare, ha deturpato l'economia ma anche il cinema, la politica internazionale ma anche l'agricoltura. Quasi che essere ebreo significhi in automatico condividere la politica territoriale dello Stato d'Israele, che credere nella promessa di una Terra significhi per forza ragionare in termini di dominio e possesso e violenta repressione. E invece, avverte Attali, questo muro costruito per difendere il diritto all'esistenza dello stato politico di Israele sta per trasformarlo semplicemente nel più grande ghetto della storia e nient'altro.
Delinea, alla voce «Palestina» quale sia la sua idea di futuro per quella terra inquieta, spera nel riconoscimento di uno stato palestinese, immagina un ideale futuro in cui gli stati del medioriente si uniscono alla maniera degli stati europei. Guardare alla storia significa anche guardare alla continua rivelazione di sé da parte di Dio all'uomo e la faticosa e sempre inquieta storia di Israele è la testimonianza di questo continuo lavorìo passo passo sempre accanto alla Parola di Dio, alla Torah e alle voci potenti, proiettate verso l'avvenire, dei profeti. «Come se l’ebraismo fosse in realtà l’infanzia dell’umanità, primo sguardo meravigliato sul mondo, prima forma di fiducia nel Padre. Infanzia dell’umanità che bisogna perciò proteggere perché essa porta, come tutte le infanzie, la memoria delle vite precedenti e la promessa di fragili futuri».






giovedì 5 novembre 2015

Ripensare l'Apocalisse



Cinque anni fa nella nostra rubrica pubblicavamo questa breve recensione su un libro di Girard, scomparso ieri. Si tratta di un A. complesso, meritevole di essere studiato e che ha dato un contributo di lettura ai testi biblici e all'essenza della religione cristiana notevole. Tra i suoi interessi biblici vi è stato anche quello per l'apocalittica, i cui risultato sono riassunti da questo breve libro.

L’ultimo libro della Bibbia è stato uno dei più commentati e su cui più si è speculato all’interno del cristianesimo, anche negli ultimi decenni. Pochi nel mondo evangelico sanno che l’apocalittica è stata argomento di riflessioni anche da parte di laici e che è stata l’oggetto d’indagine principale di uno dei più grandi studiosi di storia della religione in Italia, Ernesto De Martino i cui appunti sulla Fine del Mondo sono stati pubblicati postumi da Einaudi e che hanno anticipato le analisi “culturali” sulla questione.
Uno studioso che appartiene alla schiera dei laici che si è interessato all’argomento ed ha studiato la Bibbia da “esterno” è stato nell’ultimo quarantennio René Girard. Letterato di formazione, affascinato dal testo biblico, Girard ha scritto diversi testi dedicati allo studio biblico e si è concentrato su quello che, a suo parere, è la dottrina centrale che rende la religione cristiana diversa da tutte le altre. La fine della ripetitività del sacrificio, per l’A. francese, avvenuto per una sola volta tramite Cristo visto come l’ultimo capro espiatorio, porta alla fine dell’introduzione dell’elemento di violenza nella religione. Questa “fine della violenza” (che può sempre però riapparire) è stata fondamentale per l’essenza della civiltà occidentale che, a partire dal trionfo del cristianesimo, è divenuta qualcosa di profondamente differente da quello che era in precedenza.
Sulla base di questa idea-guida (che emerge prepotentemente nel suo saggio La violenza e il sacro pubblicato in Italia da Adelphi)  il pensatore francese ha, in diverse sue opere, analizzato anche la concezione del tempo cristiano e di come sia essenziale la lettura dell’Apocalisse per comprendere questa idea. Il problema dell’apocalittica per un docente francese che ha insegnato a Stanford è divenuto più pressante dopo l’11 settembre ed è servito a riflettere su come si sarebbe dovuto reagire all’avvenimento.
Il libro uscito di recente per la Transeuropa (una piccola casa editrice che ha una collana dedicata alle opere di Girard) si intitola Prima dell'Apocalisse ed è composto da una lunga intervista fatta a Girard da Robert Doran nel 2007 e da uno scritto di Jean-Pierre Dupuy, epistemologo francese allievo dello stesso Girard, intitolato “Pre-vedere l’Apocalisse”. Per un catastrofismo razionale. I due scritti, pur nella loro eterogeneità rendono il piccolo libro interessante da leggere ed anche provocante per l’impostazione che gli è stata data.
L’intervista di Girard parte da alcune riflessioni preliminari sull’apocalittica cristiana. L’A., che dimostra la sua profonda conoscenza dell’esegesi contemporanea e non. Egli afferma che i primi cristiani leggevano l’Apocalisse come testo incoraggiante e non come un testo scritto per mettere paura alle persone e per parlare del tremendo giudizio di Dio, ma per confortarli in un periodo di crisi.
Girard, partendo da quest’analisi che ci trova concordi, cerca poi di applicare la lettura del libro biblico agli avvenimenti pre e post 11 settembre. Egli afferma che la reazione degli Americani è stata quella di un popolo ferito che ha dimenticato le proprie origini cristiane e che ha privilegiato nella reazione una sorta di paganità romana, dimenticando il discorso di misericordia e di negazione della violenza presente nel cristianesimo. Per questo motivo G.W. Bush è visto dall’A. come un interprete del neo-paganesimo e non del cristianesimo che non troverebbe piena esplicitazione nella reazione americana.
Un altro punto forte dell’intervista è il paragone che più volte è fatto tra cristianesimo e islamismo. Girard, pur ammettendo che l’islamismo deve molto alla religione cristiana e nasce, come direbbe lui, per un procedimento “mimetico”, è profondamente diverso perché la violenza originaria non è stata alienata da una figura centrale come quella del Cristo. Per questo motivo nell’islamismo è ancora possibile avere i kamikaze che, invece, sono del tutto impossibili in una cultura cristiana che ha proibito i sacrifici umani, resi inutili dall’ultimo definitivo sacrificio.
Il libro continua con il saggio di Dupuy che esamina il problema dell’apocalittica da un punto di vista ancora più laico e quasi “scientifico”. Il saggio di Dupuy afferma che la società occidentale ha dimenticato l’importanza di pre-vedere la catastrofe e, soprattutto dall’avvento del capitalismo, ha pensato di poter proseguire in una sorta di progresso infinito, dimenticandosi che la storia ha sempre una sua fine. Per questo motivo sarebbe meglio rivalutare una concezione ciclica del tempo che possa permettere di pre-vedere la catastrofe, accettandone le conseguenze e non facendo finta di ignorare che il tempo della storia non è sempre orientato verso il meglio. Dupuy, infatti, afferma che può sempre succedere che qualche nostra scelta ci porti a eventi imprevedibili nella loro esatta posizione temporale, ma prevedibili nella loro eventualità. Tutto questo ci deve far riflettere sull’indeterminazione della nostra vita.
Il libro si legge facilmente e se, nella prima parte, la lettura è affascinante soprattutto per chi non conosce il pensiero di Girard e che vogliano iniziarsi a esso, nella seconda parte, quello del saggio di Dupuy, è mostrato come il discorso apocalittico che, nella interpretazione tradizionale appare visionario e irrazionale, ha una sua razionalità che non va sottovalutata e che andrebbe apprezzata anche negli sforzi esegetici e pastorali nell’affrontare un testo di difficile interpretazione.
L’altra questione per cui consiglio la lettura di questo breve testo è che mostra come le nostre radici cristiane, anche quando cerchiamo di fare un discorso laico, riemergono sempre e permettono di comprendere anche a noi come questo genere letterario nato nel mondo ebraico e che ha avuto la sua celebrazione finale nel cristianesimo, sia costitutivo della nostra cultura e del nostro modo di pensare da occidentali.


                                                                                                          Valerio Bernardi – DIRS GBU

lunedì 2 novembre 2015

Crisi del neo-darwinismo?





Già diversi mesi fa abbiamo proposto questa recensione sul testo del filosofo americano Thomas Nagel. Con piacere la ripubblichiamo, in occasione dell'uscita del volume in lingua italiana.

Sul dibattito e sulla questione del rapporto tra scienza e fede e sulle conclusioni che alcuni naturalisti neo‒darwiniani traggono dalla teoria dell’evoluzione si è parlato già molto in questa rubrica, sempre scrivendo o su quanto affermavano gli atei (abbiamo parlato di Dawkins, Odifreddi, di quanto scritto in Italia dai collaboratori dalla rivista Micromega), sia dal punto di vista dei credenti (McGrath e altri). Non abbiamo mai accennato, invece, che il riduzionismo naturalistico, pacificamente accettato da Dawkins e i suoi discepoli (Odifreddi e Pievani in Italia) non sempre ottiene lo stesso successo nel campo filosofico da parte di coloro che non sono credenti. Lasciando da parte le considerazioni di Stephen J. Gould in merito all’applicazione filosofica del neo‒darwinismo fatta da Dawkins o di quanto affermato da studiosi e scienziati come Piatelli Palmarini e Fodor ne Gli errori di Darwin, vogliamo soffermarci invece, su un saggio più propriamente filosofico scritto un paio di anni fa dal filosofo analitico Thomas Nagel e che si intitola Mente e cosmo. Perché la concezione neodarwiniana della natura è quasi certamente falsa, pubblicato in italiano quest'anno da Cortina.
Nagel, filosofo che normalmente si occupa di filosofia morale e politica, ha voluto entrare con questo testo nel campo della metafisica (dove in realtà si era già cimentato parlando del nesso corpo‒mente), valutando il «sistema filosofico» (tale deve essere considerato dei neo‒darwiniani—la distinzione che Nagel fa tra loro e lo stesso Darwin è la stessa che viene effettuata, per esempio da Alistair McGrath in Dio e l’evoluzione) sulla base di alcune questioni che si ritengono fondamentali e che, a parere del pensatore americano, mettono in crisi tale visione del mondo. Dopo aver introdotto il testo affermando che il darwinismo non può essere considerato una filosofia, ma una teoria scientifica, e ribadito che, rispetto alla questione del divino lui si schiera dalla parte degli agnostici e che il metodo naturalista proposto dai neo‒darwiniani non coglie tutta la realtà ed ha alcune fallacie di tipo logico, in quattro capitoli scritti con il tipico rigore dei filosofi analitici (le note sono veramente poche nel testo perché il tentativo è di dire tutto in una maniera chiara e inattaccabile) affronta quattro diversi argomenti: la questione del rapporto tra riduzionismo e ordine naturale, il problema dell’esistenza di una coscienza che trascenda il dato meramente materiale, la conoscenza ed il valore delle azioni morali.
Il testo parte giustamente dal caposaldo dei neo‒darwiniani: l’idea che tutto quanto accade possa essere spiegato (se non adesso, in un futuro piuttosto indefinito) dall’ordine naturale e da come si è sviluppata la natura durante il processo evolutivo. Nagel, pur affermando di credere che ci sia stato un progresso evolutivo, ritiene che tutto questo non possa spiegare pienamente cosa accade nella natura ed afferma che risulta piuttosto difficile ed arduo e che talvolta, per ipotizzare una spiegazione ci si affida troppo al caso ed alla questione dell’adattamento. Il filosofo cerca anche di mostrare come le leggi della fisica (anche nel campo quantistico) seguano un ordine diverso da quello implicito nell’ordine neo‒evoluzionistico e che, proprio per questo motivo, non possiamo parlare di un preciso, attendibile e vero ordine della natura seguendo il dettato neo‒evoluzionista.
Le obiezioni dello studioso americano diventano ancora più pressanti nei capitoli successivi. Quando inizia a parlare della coscienza, si oppone in maniera chiara all’idea che mente e cervello possano essere perfettamente coincidenti, ritenendo che i processi decisionali presenti nella nostra coscienza (ritorna all’uso tradizionale di questo termine quasi riprendendo il ruolo che la coscienza aveva in Hegel, ma tenendo ben presente quanto affermavano Popper ed Eccles negli anni 1970) non possano essere spiegati con semplici impulsi elettrici provenienti dai nostri impianti neuronali, ma che ci sia una sorta di trascendenza dell’essere umano e del suo sviluppo.
Anche la volontà di conoscere, di ampliare i propri orizzonti culturali non può essere vista come un semplice fatto adattativo spinto da circostanze naturali e puramente casuali. La conoscenza è un procedimento complesso che ha a che fare con diversi fattori che non possono essere spiegati solo dalle scelte più vantaggiose e che portano ad azioni che a lungo andare possono essere viste come interessate, ma talvolta vi sono maniere di conoscere apparentemente disinteressate.
Proprio per questo motivo, Nagel ritiene che anche l’azione morale travalichi le costatazioni del neo‒darwinismo. In una logica riduzionista a cosa servirebbero le azioni disinteressante, quelle che vengono fatte a prescindere dai meri calcoli utilitaristici. Il filosofo non arriva a negare la possibilità di una morale basata su assunti neo‒darwiniani, ma pensa che una tale morale non porterebbe gli uomini a comportarsi in maniera tale da agire in maniera efficace nel mondo.
Questi gli argomenti portati avanti da Nagel. Cosa dire del testo? Il libro porta avanti argomenti che, a nostro parere, sono efficaci da un punto di vista filosofico e mostrano che il neo‒darwinismo, oltre che da un punto di vista teologico può essere attaccato anche da un punto di vista filosofico, mostrandone le sue debolezze. L’approccio di Nagel è inoltre interessante perché non si tratta di un filosofo «scettico» sulle possibilità che vengono date dalla conoscenza scientifica, ma che crede fortemente che la scienza possa dare un orizzonte di senso. Per questi motivi quindi riteniamo quello di Nagel uno dei migliori saggi scritti sull’argomento affiancabile a quanto Alvin Plantinga (da un punto vista teistico) ha affermato in Where the Conflict Really Lies e nel suo ultimo, e più significativo, Knowledge and Christian Belief.


                                                                                              Valerio Bernardi - DIRS GBU

domenica 25 ottobre 2015

I Salmi meditativi



Nelle chiese evangeliche, in genere, nonostante la nostra tradizione direbbe il contrario (si vedano i commenti al Salterio di Lutero), sembra quasi che i Salmi siano diventati un libro desueto, poco frequentato, soprattutto da quando l’innografia contemporanea, nonostante qualche valido tentativo, sembra averli dimenticati e li riprende solo in alcune espressioni, senza realmente modernizzarli e usarli come base teologica per i nostri canti. Riflettere su quello che è il libro più lungo della Bibbia è invece giusto, perché in esso, con tutta probabilità, abbiamo una delle più alte sintesi dei sentimenti umani quando si confrontano con il divino.
A farci riavvicinare i Salmi ci prova N.T. Wright, uno dei teologi ed esegeti evangelici più affermati oggi, che ha scritto questo libretto di un centinaio di pagine intitolato I Salmi. Perchè sono essenziali, pubblicato da Claudiana lo scorso anno. Lo studioso inglese precisa subito che il libro, che non ha intenzioni accademiche ma soprattutto divulgative e meditative, è un appello personale a tornare a riusare il libro dei Salmi come libro di riflessioni rivalutandone anche il suo uso liturgico. I Salmi sono quindi visti soprattutto come un libro di preghiera da cui trarre esperienze di vita, esattamente come, a parere dell’A., facevano gli Ebrei del Secondo Tempio, sino ai tempi di Cristo che usavano questi testi come il loro manuale di preghiera e canto, come il testo da cui trarre consigli per la vita di ogni giorno, come espressione del rapporto quotidiano con Dio.
Nonostante questo uso quotidiano e meditativo non va ignorato anche quello liturgico. I Salmi erano cantati nel Tempio da Leviti professionisti che si addestravano nel farlo. Accanto a questi aspetti del come si usavano (importanti per un testo che vuole far tornare il lettore alla frequentazione di questi testi, provenienti da molteplici autori e molteplici epoche, ma che sono stati raccolti in un insieme coerente e coeso), ci si sofferma sul cantare e su come essa sia un’attività che investa tutto il corpo e che per questo risulta un atto di culto a Dio più completo di ogni altro.
Wright, nella parte più teologica e meno liturgica del suo scritto (i primi due capitoli sono dedicati a questo aspetti), inizia con il dire che i Salmi erano considerati una porta di comunicazione tra Cielo e Terra, tra Dio e l’uomo in cui il culto del tempio serviva da mediatore tra questi due luoghi. La loro lettura, quindi, riapre questa porta di un mondo che Dio ha voluto sempre più comunicante, soprattutto dopo la venuta del Suo figlio sulla Terra. Ecco perché è importante analizzare quelle che sono le maggiori tematiche di questo libro e di come esse sono affrontate.
Al centro del primo capitolo dedicato alle tematiche (che è il terzo del libro) vi è il rapporto tra tempo di Dio e tempo dell’uomo. I compositori dei salmi (e coloro che li hanno cantati in origine) erano ben consci che il tempo di Dio rivoluziona e dà speranza al tempo dell’uomo. Per il teologo anglicano, l’uomo che è il signore del creato (cantato in questa maniera in diverse di queste composizioni) trova la sua speranza nel riscatto che Dio ha promesso, anche nei momenti più bui (i salmi dove lo scoraggiamento è attestato non sono ignorati, anzi, dimostrano come il rapporto con Dio sia più stretto).
Lo spazio di Dio e lo spazio dell’uomo tra loro interrelati sono una delle altre tematiche portanti dei Salmi. Il Dio di Israele si manifesta quando vuole, ma non vive lontano dagli uomini; è sempre in stretto contatto con loro ed allo stesso tempo è in ascolto del suo popolo che lo invoca per attendere giustizia e riscatto. I Salmi sono anche questo: l’invocazione della presenza di un Dio che risponde e che, soprattutto, fa sperare in un futuro di giustizia e migliore del presente che si vive.
Un altro aspetto del libro più lungo della Bibbia è, per Wright, l’esaltazione della potenza creativa di Dio. A giubilare ed a rendere culto per la sua esistenza non è solo l’uomo, ma nelle immagini metaforiche e metonimiche dei salmisti, anche la Natura (monti, fiumi, alberi, acque) esultano per la presenza di Dio. Il rapporto con la Natura e con il Creato viene esaltato dai salmisti e ci ricorda più volte chi è il Creatore dell’universo ed il reggitore di tutto.
Per questo si afferma nel testo che i Salmi sfidano la concezione odierna del mondo, molto più vicina ad una indifferenza verso il divino e verso la sua presenza e molto più disperata. I Salmi non ignorano la disperazione dell’umanità, ma la stemperano nella speranza data dalla promessa del divino ed aprono ad una concezione di riscatto difficilmente presente nel mondo contemporaneo.
Il libro si legge piacevolmente, le citazioni ed i momenti in cui riflettere con l’A. sono molteplici (la postfazione finale narra di come egli stesso rifletta quotidianamente su questo libro e su quali emozioni li suscitano). Si tratta di un testo che lo studioso inglese non ha scritto per gli accademici, ma per i credenti che vogliano tornare a riflettere su questo libro della Bibbia e vogliano una breve guida su come orientarsi e quali possono essere i frutti di una meditazione costante su di essi e si dimostra un ottimo esempio di come teologia e divulgazione biblica possano felicemente incontrarsi.

                                                                          Valerio Bernardi - DIRS GBU





domenica 18 ottobre 2015

Il Gesù dei Vangeli secondo la metodologia anglosassone





Se qualcuno vi chiedesse, oltre ai Vangeli, quale libro leggere su Gesù per avere una cultura di base, che suggerimento dareste? In effetti su Gesù, come più volte abbiamo detto, la bibliografia è immensa ed è adatta a qualsiasi esigenza e per qualsiasi persona, da colui che ha una cultura classico-biblica molto bassa, a coloro che sono esperti di Bibbia.
Dare quindi una risposta è abbastanza difficile. Il campo potrebbe però essere ristretto: quale libro-base su Gesù suggeriresti ad una persona che conosce poco che è stato pubblicato negli ultimi mesi? La risposta va trovata quindi negli scaffali delle librerie “reali” e “virtuali” dove possiamo  vedere cosa è disponibile. In Inghilterra, da qualche anno, Bauckham ha pubblicato un libriccino, intitolato Jesus, per la Oxford University Press nella collana A Very Short Introduction. Le edizioni Gbu hanno deciso di tradurre questo libro per dare una prima introduzione agli studi ed alle ricerche sul Gesù storico che potesse essere letto anche da non addetti ai lavori e che avesse la profondità di un testo accademico. Lo scopo della collana della OUP è quella ed è sembrato che in Italia mancasse uno strumento del genere.
Il Gesù dei vangeli (questo è il titolo dato in italiano) in un centinaio di pagine scritte bene ed in maniera chiara passa in rassegna lo stato dell’arte degli studi su Gesù. Bauckham si rende conto di quanto sia difficile oggi scrivere un libro su Gesù che dica qualcosa di significativo e parte dal presupposto, accettato praticamente da tutti, che l’uomo di Nazaret sia diventato un’icona universale cui si è dato diversi significati. Per questo motivo per parlare di Cristo, bisogna ritornare alle fonti ed all’ambiente. Ecco perché, dopo l’introduzione, ci si sofferma sulla bontà delle fonti che ci sono pervenute, affermando, sulla base dei propri studi, che i quattro vangeli vanno visti come fonti attendibili.
Interessanti sono le pagine dedicate all’ambiente in cui Gesù agisce. Per il teologo britannico è fondamentale conoscere quello che succede nel giudaismo del Secondo Tempio e del I sec. d.C. per comprendere quali sono le dinamiche in cui si agì e cosa significasse l’annuncio e l’attuazione del Regno di Dio secondo Cristo. Anche per Bauckham, infatti, questo è l’annuncio centrale di Gesù che, però, non è unicamente agganciato ad un evento escatologico, ma anche ad una pratica di vita. Bauckham, affidandosi alle fonti che ritiene attendibili, sulla base delle risposte che Gesù dà davanti al Sinedrio, ritiene che aveva coscienza di essere il Messia di Israele e che la questione sia enunciata più volte nei Vangeli.
Il libro si conclude con due brevi capitoli e con una bibliografia. Nei due ultimi capitoli si delinea la questione della morte e della Resurrezione di Gesù. Lo studioso inglese, mostra come la testimonianza della tomba vuota sia affidata principalmente alle donne, rendendo proprio per questo la notizia attendibile, perché paradossale. L’ultimo capitolo parla del rapporto che intercorre tra Gesù e il cristianesimo delle origini. Lo studioso inglese, sempre basandosi sulle fonti (in questo caso la lettura degli Atti e delle epistole paoline), afferma che Paolo non ha reinterprato Gesù e inventato il Cristianesimo, ma ha semplicemente espanso alcuni concetti che erano già presenti nella comunità gerosolomitana. La bibliografia, che è ragionata, non indica solo testi favorevoli alle interpretazioni date dall’A., ma anche di testi avversi  che possano mostrare come la discussione sulla questione sia aperta.
Il testo di Bauckham, quindi, è un ottimo esempio di come si scriva un libro di alta divulgazione scevro da obni vis polemica (il testo non è scritto contro qualcuno, ma per dire qualcosa di positivo) e rigoroso nel  metodo.


                                                                                              Valerio Bernardi - DIRS GBU

domenica 11 ottobre 2015

Film e Filosofia - La Hannah Arendt di Marga



Margarethe von Trotta, Hannah Arendt, DVD+Libro (Scritti di Simona Forti), Feltrinelli 2012.

Per questo lunedì letterario estivo ho scelto di deviare parzialmente dalla linea consueta recensendo un’opera composta dal bel film su Hannah Arendt della regista Margarethe von Trotta corredato nel cofanetto Feltrinelli da una raccolta di saggi di 80 pagine, intitolata: “La normalità del male” di Simona Forti, docente di storia della filosofia politica ed esperta del pensiero di Hannah Arendt.

Il film, sottotitolato in italiano, è girato contemporaneamente in tedesco ed in inglese, a seconda degli interlocutori che intervengono, oltre ad alcuni interventi in ebraico. Aprendosi su una scena che evoca la persecuzione degli ebrei nella Germania nazista, il film racconta un frammento della vita di Hannah Arendt compreso tra il 1961 e il 1965, in cui  la filosofa, fuggita negli Stati Uniti d’America e docente di filosofia presso una prestigiosa università, si reca a Gerusalemme per assistere al processo di Adolf Eichmann, il criminale nazista rapito in Argentina dal Mossad e portato in Israele.  Le viene commissionato dal New Yorker un articolo su questo processo che una volta pubblicato susciterà forti reazioni da parte della comunità ebraica. Von Trotta narra egregiamente la vicenda che vede la filosofa sconvolgere le categorie tradizionali con cui era stato fino a quel momento letto il problema dell’olocausto, sostenendo che Eichmann non fosse un mostro ma un ‘banale’ ingranaggio di un meccanismo totalitario capace di annullare in un intero popolo la facoltà di distinguere tra il bene il male. In questo sistema aberrante è banale il male commesso dal criminale, come anche quello di alcuni capi ebrei che collaborarono con le autorità naziste, argomento fino a quel momento taciuto da parte ebraica. Il film descrive bene lo scontro tra la Arendt , interpretata da una capacissima Barbara Sukowa, e il gruppo dei suoi amici intellettuali; ne perderà alcuni (Kurt Blumenfled, Hans Jonas tra gli altri)  ma avrà il sostegno affettuoso del marito, il poeta e filosofo Heinrich Blücher, (interpretato da Axel Milberg) e dei suoi studenti. Significative anche le scene del processo originali inserite nel film

Il film ha l’indubbio merito di riportare alla riflessione contemporanea la posizione della Arendt sul problema del male, ampiamente spiegata e argomentata, tra gli altri, nel ben noto testo: “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” (1963) ma ora rilanciata sotto forma cinematografica, ad uso anche della domenica della memoria (Il film è stato diffuso su Raitre lo scorso 27 gennaio). I saggi critici di Simona forti ne approfondiscono alcuni aspetti che qui riportiamo.

Il primo saggio, “Un processo esemplare” racconta l’evoluzione del pensiero arendtiano nel corso del processo. Si pone il problema della sua legittimità, essendo un processo fatto da uno stato che non esisteva quando il criminale agiva, e dopo un rapimento dell’imputato da parte dei servizi segreti israeliani. La Arendt in un primo momento era favorevole, trovandolo politicamente e giuridicamente l’unico modo per fare giustizia alle vittime, ma rivede le sue opinioni in corso d’opera, ipotizzando che l’intero processo sia una mossa di Ben Gurion per legittimare lo stato di Israele, e mettere sotto accusa di antisemitismo non solo la Germania nazista ma tutti gli stati europei. In questo contesto l’articolo diventa materiale per il noto saggio sulla banalità del male, da cui emergono i due problemi centrali della non mostruosità di Eichmann e del collaborazionismo dei capi ebrei. Se non ci fosse stato un sistema organizzato all’interno del popolo ci sarebbero state meno vittime. I carnefici avrebbero puntato sulla razionalità dell’autoconservazione delle vittime ed in questo modo ottenuto la loro collaborazione. Il carnefice è quindi privato di quella mostruosità che lo aveva finora caratterizzato e la vittima caricata di responsabilità finora lette come semplici mali minori. Tutto ciò, secondo Arendt, non è che il risultato di un totalitarismo capace di annullare il pensiero nell’individuo, in nome del rispetto delle norme.

Il secondo saggio, “La doppia eredità di una nuova provocazione”, tenta di trarre un bilancio del successo delle tesi di Hannah Arendt a 50 anni di distanza delle pubblicazione della banalità del male. Simona Forti ritiene che alcuni elementi teorici  utili a concepire e definire il male siano entrati nella tradizione filosofica. In particolare i due concetti secondo cui c'è connessione tra male e assenza di giudizio, e tra male ed obbedienza. Concetti che Arendt imputa al kantismo in quanto potenzialmente responsabile di proporre un'etica in cui la legge stessa diventa il bene, e l'obbedienza alla stessa un contenitore vuoto, che in una collettività come quella della Germania, trova nel rispetto di regole definite dallo stato il bene supremo, quand'anche queste impongano lo sterminio di coloro che non hanno diritto di umanità secondo i parametri definiti dallo stato. Sicuramente la lettura di Kant fatta dalla Arendt pecca di imparzialità e di incompletezza, ma pone al contempo nuclei teorici imprescindibili per la definizione del male.


Il terzo saggio: “L'antinomia tra etica e vita e tra etica e legge”, è il più lungo e denso, ed analizza lo sviluppo del pensiero di Arendt partendo da un suo saggio del 1966, intitolato Alcune questioni di filosofia morale. Arendt vede il passaggio da radicalità del male (il male assoluto) a banalità  quel cambiamento che avviene nel rapporto tra sfera pubblica e scelte soggettive per cui la Germania nazista è riuscita a ridefinire una tavola di valori che ha sconvolto i parametri dell'etica tradizionale. Anna Forti ripercorre l'itinerario della Arendt definitosi nel dialogo con tre grandi filosofi della tradizione occidentale: Nietzsche, Kant e Socrate. La Arendt abbraccia l'idea nietzschana secondo cui la coscienza non è autoevidente, come la tradizione classica ha sempre ritenuto, ma contesta al filosofo tedesco di rimanere attaccato ad una concezione del bene, secondo cui conservazione della vita è in fondo il bene ultimo. Se per i greci l'attaccamento alla vita biologica era visto come una sorta di vigliaccheria ed il sacrificio di questa per un ideale più alto un valore, nel cristianesimo la vita materiale in quanto dono di Dio è tornato ad essere il bene ultimo. Arendt rimprovera Nietzsche, in modo superficiale secondo Forti, di non avere saputo superare questo livello biopolitico nella sua critica al cristianesimo. In questo però è molto vicina a Kant, in quanto separa in modo forse troppo netto necessità e libertà. Arendt sostiene che è necessario un qualcosa di più della vita biologica che fondi la soggettività come soggetto etico, e quindi la sua violazione come male. Si passa dunque  a Kant che ha avuto il merito di non cercare questo “qualcosa in più” nella religione,  liberando la morale dalla religione, e legandola all'imperativo categorico quindi alla ragione. Ma anche Kant, nella lettura di Arendt rimane imprigionato in una struttura verticale che lega ragione e volontà per cui il bene è comunque obbedienza ed il male trasgressione. Il “tu devi” rimane così un contenitore vuoto, e sul contenuto del bene e del male Arent si allontana da Kant, al punto da vedere nel concetto di obbedienza  una delle cause del collasso etico della società novecentesca, incarnato da Eichmann. 

La coscienza diventa dunque in meccanismo di de-responsabilizzazione e permette dei mali. Agisce unita alla volontà, che mettendo a tacere istanze contrapposte nell'io si trasforma in conformità ad un comando. Il bene in queste concezioni è sempre qualcosa di dato ed esterno a cui conformarsi, ed è conseguenza dell'eredità delle religioni rivelate.
La critica rivolta al cristianesimo è piuttosto pungente. Il cristianesimo infatti avrebbe trasformato il conflitto interiore tra "io voglio" e "tu devi"  in un conflitto tra Dio, o l'autorità ecclesiastica, e il soggetto umano che se obbedisce vive moralmente ma se disobbedisce vive nel peccato. Giusto ed in giusto coincidono con conformità e non conformità e la questione morale si esaurisce in una dialettica interna alla coscienza.
Per scardinare questa impostazione bisogna rivalutare il giudizio riflettente, capace di giudicare anche in assenza di leggi precostituite. Chi non si conforma ad un regime fornisce all'autrice un punto di partenza che la riconduce al pensiero di Socrate nella sua dottrina del daimon che sa dire soprattutto di no: meglio essere in conflitto con il mondo che con se stessi. Il male, o la banalità del male,  è quindi l'incapacità di distanziarsi dal contesto in cui ci si trova, senza riuscire a  resistervi. Il Cristianesimo ha ridotto il conflitto interiore alla coscienza in un'unità, mettendo a tacere l'io voglio, alle esigenze dell'io devo; nella filosofia socratica si trova invece una dualità, simile alla coscienza, che è una capacità di pensiero, che non scorda il passato e sa staccarsi dal presente. Questa facoltà di pensiero distingue l'uomo dall'animale ed è il qualcosa di più rispetto alla vita biologica che fonda il soggetto etico. La divisione tra l'io e se stesso è la condizione di possibilità di pensiero, il trascendentale della libertà e la condizione di imputabilità del male al contempo.
La lettura di alcuni appunti di Arendt e del saggio La vita della mente svela una rilettura della coscienza socratica in termini moderni: la coscienza è divisa in una parte temporale ed una parte appercettiva che ambisce all'eternità. Il male è l'egemonia di una dimensione sull'altra, sia di quella temporale che ha come unico fine il mantenimento della vita, sia quella eterna che porta a deliri di onnipotenza. Il giudizio critico vive laddove rimane viva la dialettica tra queste due dimensioni dell'io.
La domanda da porsi non è dunque cosa sia il male, ma come e perché si arrivi ad un'esperienza di potere in cui si afferma un sistema di dominazione che cancella la possibilità di giudizio critico.
Accanto alla duplicità interiore degli eroi negativi di Dostoevskij bisogna, secondo Arendt, inserire una generazione di eroi negativi alla Eichmann che vivono il male secondo la dimensione dell'assenza di normatività e di non-giudizio passivo.
Nel quarto saggio, infine,  "La soggezione come rimedio alla superbia", Simona Forti si concentra nuovamente sul problema dell'obbedienza, mostrando che il ruolo della soggezione nell'etica era un problema che occupava la pensatrice anche prima delle sue riflessioni su Eichmann. Ripercorre l'itinerario arendtiano che tenta di spiegare perché un comportamento disprezzabile per i greci come quello dell'obbedienza sia diventato bene sommo. Il Cristianesimo, individuando nella predisposizione alla trasgressione un dato costitutivo dell'umano, diverrà facile preda di sistemi politici che tendono a dominare.
Si crea quindi un connubio stretto tra trasgressione, male, morte e potere che nasce dal primo termine. Certamente nella concezione cristiana il potere dell'uomo sull'uomo può essere frutto della libido dominandi, ed è giudicato male. Può però anche essere mosso da finalità redentive, perché sono necessarie delle guide, che concepiscano il potere come volontà di cura e che portino altri uomini verso la redenzione. Questo quindi porta non tanto verso la superbia ma verso l'umiltà. La trasgressione ha dunque un potere ambivalente. Può essere cicatrice che ricorda la colpa, ma anche, secondo un modello pastorale, desiderio di cura che riporta


Tra i numerosi spunti di riflessione posti sia dal film che dagli approfondimenti del libro, due si impongo al lettore cristiano. Il primo è quello di capire se il concetto di banalità o normalità del male sia compatibile con la configurazione biblica del male, e se la riflessione arendtiana, nella sua rilettura o illustrazione della regista Von Trotta e di Simona Forti, ne arricchisca la comprensione o se, mi si perdoni il termine, la "banalizzi". Ritengo che l'aver individuato un tratto fondamentale della natura del male, quello dello sfuggire a definizioni chiare, o del mascherarsi dietro le sembianze della normalità, anche concepita come esecuzione di un ordine, sia pienamente conforme con il concetto biblico di male quale la Scrittura lo illustra. Il male nella Bibbia non ha mai un chiaro perché, e le sue origini seppure descritte nel racconto della trasgressione, restano oscure. Per quanto nominato prima della caduta non si sa bene cosa fosse, né sono chiare lo origini del serpente che lo simbolizza. Più concretamente, le stragi perpetrate dal faraone nei confronti dei neonati ebrei o da Erode, hanno del "banale" laddove si pensa che il faraone si sarebbe aspettato proprio che le levatrici eseguissero ciecamente i suoi ordini, ed Erode che altrettanto facessero i suoi sudditi. Non c'è effettivamente bisogno di mostruosità in numerose forme di male presenti nella Bibbia, e a volersi spingere più in là si potrebbe riflettere sulla banalità del male commesso da Giuda, che non è presentato come un mostro che fa il male per farlo, ma è semplicemente assetato di denaro; o ancora riflettere sulla natura del peccato umano, della cui dimensione e portata siamo spesso inconsapevoli perché culturalmente condizionati a criteri assiologici che dipendono più dalla nostra cultura che dai valori proposti biblicamente. Certamente, se  il male “banale” viene imputato solo ad entità superiori al soggetto come lo stato totalitario, si rischia una deresponsabilizzazione dei singoli, come Eichmann, ma non sembra questa la traiettoria della Arendt. 
Più difficile accettare invece il secondo concetto che emerge con forza dal saggio, quello della responsabilità del cristianesimo e del nesso da questo creato tra morale ed obbedienza. Il nesso tra male e trasgressione è indubbio nelle scritture, e c'è sicuramente del vero nell'individuare nelle strumentalizzazioni politiche di questi concetti cristiani degli elementi responsabili di obbrobri come il nazismo. Il punto che tuttavia è in difetto è quello per cui la Arendt non sembra cogliere che la trasgressione condannata dal cristianesimo è grave proprio perché è trasgressione di un contenuto che non può mai prescindere dall'amore e dal rispetto dell'altro. Non è la trasgressione in sé di un imperativo categorico vuoto, ma è trasgressione rispetto a un qualcosa che tutela il divino come l'umano. E' vero che la Arendt salva Gesù o Francesco in quanto capaci di creatività e disobbedienza, ma il punto di scollamento tra l'imperativo categorico ed i suoi contenuti non può essere considerato come qualcosa di connaturato al cristianesimo - l'ultimo saggio, proponendo il concetto di potere come cura può forse andare in questo senso. Per altro, anche S. Paolo, accusato di aver affinato il collegamento tra disobbedienza e peccato, parla esplicitamente di "non conformità al presente secolo", (Romani 12,2)
Se così non fosse non si spiegherebbero i numerosi esempi di disobbedienza civile e resistenza, testimoni di quel distacco dal presente di cui si parla nel terzo saggio, che hanno tracciato la storia del pensiero biblico dalle levatrici che salvarono Mosé, fino a Dietrich Bonhoffer e via dicendo.
Difficile quindi individuare il fondamento dell'etica in una rilettura della dualità socratica interna alla coscienza, perché anche questa può originarsi in un contesto in cui i valori morali potrebbero essere completamente sovvertiti. Quali radici e quale pensiero riflessivo dovrebbe avere la soggettività di un bambino soldato o un baby-camorrista che dalla nascita viene abituato ad un sistema di vita irrispettoso dell'umano? Temo che il desiderio di fondare un'etica prescindendo da una rivelazione esterna sia un tentativo che rischia inevitabilmente di ricadere sull'umano che da sé non riesce a trovare né quel "qualcosa" che gli permetta di trascendere la sua vita biologica, istanza ricercata dalla Ardent, ma inevitabilmente inquadrabile solo in una prospettiva trascendente, né l'antidoto per i totalitarismi. 

Stefano Molino - DIRS GBU