domenica 29 marzo 2015

Zizek parla di Islam

L’Islam visto da Zizek

Se qualcuno mi chiedesse chi sia oggi il maggiore filosofo vivente avrei dei dubbi a dare una risposta certa (è tipico dei filosofi). Se, però, mi chiedessero chi sia il filosofo più pop oggi non avrei alcun dubbio nella risposta e direi Slavoj Zizek. Zizek è probabilmente il pensatore più conosciuto al mondo, quello più presente nei dibattiti televisivi, nei giornali e nei social media (provate a cliccare il suo nome su youtube, ad es.). Irriverente, politcamente scorretto (continua, tra l’altro, a definirsi “comunista” pur ammettendo che Hegel è più grande di Marx), forse talvolta sin troppo provocatorio, rimane comunque, nonostante la onnipervasività delle sue posizioni ed una facilità di scrittura eccessiva, un grande pensatore.
Il libriccino pubblicato da Ponte delle Grazie intitolato L’Islam e la modernità. Riflessioni blasfeme,  si presenta come un vero e proprio pamphlet composto di due capitoli, l’uno derivante dalle riflessioni che il pensatore sloveno ha fatto dopo l’attentato in Francia alla redazione della rivista Charlie Hebdo, l’altro, di qualche anno addietro, frutto di una riflessione su ciò che è chiamato l’archivio dell’Islam, usando una tipica espressione lacaniana, dove la parola archivio designa ciò che è depositato nella nostra psiche e che forma gli archetipi del nostro comportamento.
Il primo testo, frutto di un ampliamento di un articolo che Zizek ha pubblicato sul Guardian, invita le persone a pensare anche a caldo rispetto ad un avvenimento di pochi giorni. Per il filosofo solo il pensiero ci permette di superare lo sgomento. Zizek nell’articolo vuole dimostrare tre cose: in primis, che gli islamici che hanno fatto l’attentato alla redazione francese non sono fondamentalisti; in secondo luogo, non sono dei barbari medioevali; in terzo luogo, hanno paura di ciò che rappresenta l’Occidente.
Per Zizek, infatti, il fondamentalismo è quello degli Amish, ovvero di coloro che rimangono ancorati alle loro tradizioni e che vogliono vivere isolati dal resto del mondo. Gli attentatori di Parigi, invece, vogliono convertire il mondo e vogliono reagire ad esso. Non si tratta di persone immerse nel Medio Evo, perché gli attuali fondamentalisti islamici usano tutti i mezzi moderni di comunicazione ed amano la modernità: vivono come in un perenne videogame dove sparare è diventata una cosa naturale.
Il secondo capitolo è di più difficile lettura ed è frutto di alcune riflessioni che il pensatore sloveno aveva fatto qualche anno addietro. Usando le tecniche psicoanalitiche di stampo lacaniano, si cerca di descrivere le caratteristiche tipiche della religione islamica e ciò che la rende differente dalle altre religioni monoteiste. Per Zizek l’Islam è la religione dell’abbandono anziché dell’accoglienza, come abbandonati e rigettati sono stati Agar e Ismaele, frutto non della volontà divina, ma della volontà dell’uomo. Riprendendo il racconto biblico della Genesi si vuole mostrare come già l’archetipo fondativo sia generatore d’ansia. Accanto a ciò, si fa notare come il dubbio sulla formazione della nuova Parola di Dio (il Corano) sia sempre presente il dubbio della tentazione diabolica e dell’entrata del male, cui l’uomo non ha nessuna capacità di reagire. Il rapporto Dio-uomo, quindi, risulta diverso tra Ebraismo e Cristianesimo da una parte e Islamismo dall’altra, dove il Dio appare molto più impersonale e distaccato. Queste caratteristiche, a parere, del filosofo sloveno, rendono l’Islam una religione più ansiogena rispetto alle altre due e che, per questo motivo, rischia di generare fenomeni come quelli avvenuti negli ultimi decenni.
La lettura di Zizek, come sempre, risulta interessante e provocatoria. Egli, infatti, ritiene che gli attentatori di Parigi siano fortemente attratti, come tutti, dai “valori” e dagli apparenti benefits dell’Occidente. La ferocia con cui si abbattono nei confronti di certe manifestazioni sono più sintomo di questa attrazione/repulsione che di un respingimento integrale. Il problema, quindi, sarebbe intrinseco alla stessa religione ed al suo ambiguo rapporto (oggi, non ieri) con il mondo capitalistico e con le sue possibilità. Ecco perché per rispondere ci vuole una filosofia radicale ed un’alternativa realistica all’odierna società neoliberale.
La lettura va consigliata proprio per la visione “eccentrica” di Zizek che non si preoccupa del politically correct. Alcune sue analisi sulla religione rimangono discutibili, fatte da una prospettiva atea ma rispettosa del fatto religioso.

                                                                                  Valerio Bernardi - DIRS GBU                     


martedì 17 marzo 2015

Il pericolo dell'intolleranza religiosa in Occidente



Martha C. Nussbaum, Libertà di coscienza e di religione, Bologna, il Mulino, 2009, pp. 82


Martha Nussbaum, docente di Law and Ethics presso l'Università di Chicago e esperta di filosofia greca e latina, è stata nominata nel 2008 tra i cento pensatori più importanti dalla rivista Foreign Policy. Negli anni Ottanta ha iniziato una collaborazione con Amartya Sen che ha portato insieme ad altri ricercatori alla fondazione, nel 2003, della Human Development and Capability Association.

Il clima di paura permea la società, forse oggi più che nel 2009, anno di pubblicazione in Italia di questo pamphlet, e la diversità religiosa, per la sua irriducibilità, è quella che viene temuta più di ogni altra. L'autrice inizia con una dichiarazione d'intenti: per evitare che la paura ci spinga a comportamenti errati bisogna rinforzare la tradizione di rispetto della libertà di coscienza anche quando questa richiede l'esonero da leggi generali, mantenendo “l'interesse imperativo dello stato” come unico limite. La libertà religiosa non è compatibile con un'istituzionalizzazione del fenomeno religioso, con la creazione di un'ortodossia religiosa, una forma che crei un discrimine tra norma ed eccezione.

Il contesto di riferimento del discorso dell’autrice sono gli Stati Uniti, ma nei due principi descritti riscontriamo problematiche comuni al nostro paese, con l'aggravante dell'assenza di una legge sulla libertà di religione e con la “tradizione cattolica” che di per sé si configura come ortodossia.

L'autrice parte dal mito fondatore della società americana, i pellegrini del Mayflower in fuga dalle persecuzioni religiose in patria e dalla concezione di libertà religiosa che spinse i costituenti a     iscrivere nel Primo Emendamento il seguente statuto: “Il Congresso non potrà emanare alcuna legge a favore del riconoscimento ufficiale di qualsiasi religione, o per proibirne il libero esercizio”.

Roger Williams sosteneva, nel suo La sanguinaria dottrina della persecuzione per causa di coscienza del 1644, che la definizione di una religione ortodossa non solo è lesiva per chi non professa quella fede ma, anche, che la libertà di coscienza richiede uno spazio per essere dispiegata e lo Stato deve garantire e proteggere questo spazio in maniera eguale ed imparziale.
Il liberalismo classico stabilisce che la libertà religiosa è equa e imparziale quando non ci sono leggi che penalizzano credenze e pratiche religiose e che, le leggi, per essere imparziali, non devono punire determinate pratiche solo perché recanti una valenza religiosa (che sia la macellazione degli animali o l'utilizzo del latino). L'imparzialità è il bene da tutelare e questo implica che non debbano esistere eccezioni o speciali dispense per motivi religiosi.

Un'altra corrente, di cui la Nussbaum non ci da altre indicazioni, non si accontenta dell'imparzialità lockeana perché le leggi, in democrazia, sono figlie della maggioranza, il che non è indice di ostilità nei confronti delle minoranze ma comporta che tante questioni vengano trascurate. Questa tradizione invita a concedere deroghe speciali come quella accordata da George Washington ai quaccheri riguardo al servizio di leva o alla protezione del segreto della confessione.
Le tensioni tra le due correnti negli Stati Uniti sono state ricorrenti ma la possibilità dei singoli stati di riequilibrare, con leggi protettive nei confronti di determinate pratiche religiose, le sentenze restrittive della Corte Suprema ha permesso di mantenere un certo equilibrio. È in questo frangente che l'autrice lancia una stoccata all'Europa riferendosi chiaramente alla Francia nella sua gestione lockeana del religioso.

Il riconoscimento di una religione di stato viola analogamente l'uguaglianza dei cittadini dinanzi alla società poiché crea, come  sosteneva Madison, un in-group e un out-group.
La Nussbaum analizza tre casi specifici: la preghiera a scuola, gli allestimenti pubblici e il finanziamento statale a scuole religiose.
Questi casi le permettono di centrare l'obiettivo che non deve essere la totale separazione tra Stato e chiesa, di cui, secondo l’autrice, non si trova traccia nella costituzione americana né, tanto meno, è augurabile in quanto impossibile da realizzare, bensì deve essere la ricerca del livello entro il quale tale separazione è positiva.

L'autrice prosegue individuando due avversari di questa concezione di libertà di coscienza: l'establishmentarian e l'antireligioso.

L'establishmentarian è colui convinto che solo definendo un’ortodossia, il “chi siamo”,  le origini e i valori, si può sopravvivere nel caos di tante religioni, si può mantenere l'ordine e la sicurezza pubblica. Il diverso potrà vivere in pace ma rimarrà diverso, non entrerà mai nello spazio pubblico, ad eguali condizioni, apparterrà all'out-group.

L'antireligioso invece disapprova in toto la religione nello spazio pubblico e la religione di per sé come “una reliquia di un'era prescientifica, foriera di nient'altro che guai” forte di una razionalità laica e scientifica. L'antireligioso tende ad avere due pesi e due misure: la religione della maggioranza, in quanto parte della cultura dominante, non crea problemi mentre le richieste delle minoranze vengono mal tollerate. Inoltre l'antireligioso, concependo solo la propria visione del mondo, non ha rispetto per la libertà di coscienza e per i compromessi che lo stato fa per garantirla.

Questa lezione americana alla convivenza tra credi diversi ha tra i suoi limiti la semplificazione estrema di un problema annoso, tanto più nei paesi di civil law, dove la definizione dello standard, dell'ortodossia, è insita nella forma giuridica oltre che nella tradizione storica: la nascita dello stato moderno è riconducibile alla fine delle guerre di religione e al cuius regio eius religio della pace di Augusta. E' interessante tuttavia constatare che i nemici della pari dignità e proiezione dei diversi credi nella sfera pubblica siano gli stessi da entrambe le sponde dell'Atlantico: la ricerca dell'identità nelle radici storico-religiose e l'ateismo alla Odifreddi o Stephen Hawking.

Quale dovrebbe essere la nostra posizione? Anche se come morale siamo più vicini all'ortodossia cattolica che a tante altre minoranze, dovremmo perseguire la strada di un riconoscimento del fenomeno religioso al di là della vicinanza al paradigma cristiano giudaico, in quanto diritto del singolo e del gruppo non come  benevola concessione. Dovremmo tornare a far sentire la nostra voce in favore della tanto attesa legge sulla libertà religiosa per uscire da uno scenario a più livelli di discriminazione, con il Concordato che fa del Cattolicesimo la Religione, i culti che hanno regolato i rapporti con lo stato attraverso le Intese religioni di serie B; il resto una massa indistinta.


                                                                                                         Elena Ammirabile - DIRS GBU

martedì 10 marzo 2015





Understanding four views of Baptism. Thomas J. Nettles, Richard L. Pratt Jr., Robert Kolb, John D. Castelein, Zondervan Grand Rapids, 2007.

Il testo a più mani, edito da Zondervan per la collana Conterpoints curata da John H. Armstrong, si presenta con una struttura molto interessante e piuttosto insolita per la saggistica contemporanea: quattro punti di vista diversi su un argomento molto importante per la fede cristiana, come il battesimo, vengono presentati e confrontati. Ognuno di quattro autori espone la teologia del battesimo propria di una certa tradizione cristiana, e gli altri tre danno una risposta critica, mettendo in evidenza i punti di accordo e di disaccordo. La cornice è quella del dialogo ecumenico tra chiese protestanti che ricercano un confronto fecondo, senza tuttavia rinunciare alla proprie convinzioni ed il risultato quello di una panoramica molto ricca delle posizioni principali sul battesimo nel mondo protestante e delle loro rispettive possibili debolezze.
            Le quattro posizioni descritte si muovono tra due estremi: quello che vede nel battesimo un semplice simbolo, rappresentato dalla posizione battista, e quello luterano che tende a vedere nello stesso un sacramento dotato di forza salvifica, seppure con motivazioni e caratteristiche diverse da quello cattolico. Nelle posizioni mediane abbiamo la visione Riformata, e quella delle Chiese di Cristo.
            Th. J. Nettles espone la posizione battista, per cui il battesimo è l’immersione di un credente per la sua iniziazione in una comunità di credenti. E’ il segno della fiducia del credente nell’opera salvifica di Cristo, ma non la completa, ne è solo il simbolo e deve essere per immersione. Il battesimo di Giovanni inaugura il nuovo patto, quello di Gesù è testimonianza della conferma di un impegno personale. Nettles osserva che battesimi neotestamentari sono sempre rivolti a persone consapevoli e pentite che danno risposte personali e che non c’è automatismo tra ricevimento dello spirito e battesimo, come non c’è identificazione tra battesimo e fede. Per spiegare la relazione tra battesimo e salvezza, che le altre posizioni tendono a vedere come molto stretta, Nettles distingue tra tre modi che la Bibbia ha di parlare di cose che salvano: quelle che dipendono dal diretto volere divino, gli incoraggiamenti a salvarsi, ed infine simboli dei quali fa parte il battesimo. Vista l’analogia che luterani e riformati vedono tra battesimo e circoncisione Nettles precisa che questi sono chiaramente distinti in quanto non rimandano l’una all’altro, ma piuttosto entrambi alla rigenerazione, che nel Nuovo Testamento segue modalità diverse dall’Antico. Ne risulta che il battesimo dei bambini è escluso e che  il battesimo degli adulti, seppure non salvifico, non è opzionale.
            Le critiche a questa posizione insistono sulla discontinuità tra nuovo ed antico Testamento, e sul carattere eccessivamente simbolico che non spiega la necessità del battesimo né le espressioni che ne indicano il potere di salvare (I Piet 3, 21).
            La posizione Riformata, esposta da L. Pratt Jr., insiste invece sulla dimensione sacramentale e pattizia del battesimo. Con sacramento la tradizione riformata intende l’incontro misterioso (Ef 5, 32) tra uomo e Dio che ha luogo attraverso riti che implicano elementi fisici ed una cerimonia speciale, di cui  mai il NT accentua la natura simbolica. Sono sempre presentati come momenti “innaturali” in cui si dispensa la grazia. C’è quindi ben più di un simbolo e che c’è unione sacramentale  tra segno e cosa significata. Tuttavia questa posizione è diversa da quella cattolica in quanto c’è anche separazione tra battesimo e dispensa della grazia che è data solo in unione alla predicazione della parola e non ex opere operato. Il battesimo conferma la parola e nutre la fede, ma non c’è unione assoluta, pertanto battesimo e grazia/salvezza non sono inseparabili, è possibile essere rigenerati/salvati senza battesimo, e non chiunque è battezzato è certamente rigenerato.
            Oltre all’aspetto sacramentale c’è quello pattizio a cui la tradizione riformata è particolarmente cara, in quanto vi vede una forte continuità tra Antico e Nuovo testamento, costituiti da una stessa sostanza. In quest’ottica battesimo e circoncisione sono visti come analoghi, ed il battesimo viene dispensato ai bambini per incorporarli alla chiesa ed inserirli in una promessa.
            Questa posizione viene criticata per la troppa dipendenza da documenti elaborati dalla tradizione riformata, e per la debolezza degli argomenti che negano la natura simbolica dei sacramenti. Problematico anche il senso della distinzione tra due patti e la portata della promessa, che garantisce comunque rigenerazione anche a chi apparentemente la rifiuta.
            La posizione luterana è quella che conferisce al battesimo il potere maggiore rispetto alle altre posizioni. Parte dal tentativo di spiegare in senso letterale il significato dell’espressione petrina “Il battesimo salva anche voi..” (I Piet 3, 21) e vede in esso una forma di linguaggio simbolico che è pienamente parola di Dio. Come la parola di Dio crea e forma, così il battesimo, linguaggio di segni fatti di cose concrete – acqua e rito – uniti a parole, ha un’efficacia rigeneratrice e creatrice che prescinde anche dalla volontà di chi riceve e dona vita, proprio come chi fa un bambino che non ha chiesto di nascere dà vita allo stesso. I bambini vanno quindi battezzati per entrare nella promessa, e nel battesimo quel peccato originale fatto di incapacità di affidarsi viene dichiarato cancellato. Il motivo per cui poi i battezzati si allontanino rimane misterioso e riguarda il mistero del male, ma questo non invalida le promesse divine.
            Questa posizione viene criticata dai battisti e dalle chiese di Cristo per l’inesistenza di esempi di battesimi di bambini nei testi, e dal riformato Pratt per la tendenza all’eccessiva speculazione propria del luteranesimo più che di Lutero.
            La posizione delle chiese di Cristo per certi versi è vicina a quella battista, e insiste sulla necessità che a battezzarsi siano degli adulti credenti e responsabili. A differenza del battesimo tuttavia vede nel battesimo un atto di obbedienza ad un comandamento di Cristo, che assume un’importanza fondamentale, al punto di diventare necessario. Viene paragonato alle opere di cui parla Giacomo, che avrebbero un senso diverso di quelle di cui parla Paolo e diventa un elemento costitutivo della fede, senza cui non c’è salvezza.
            La critica comune delle altre tre posizioni nei confronti della visione delle Chiese di Cristo sta nel rilevare che introdurre l’idea di un’opera svolta da uomini, costitutiva del processo di salvezza, anche se attenuata dalla definizione di “occasione” della salvezza, è quantomeno problematico e rischia di intaccare il sola fide luterano, a cui Castelein si aggrappa con decisione nel momento in cui contrasta la pratica luterana del pedobattesimo.

            Sia l'introduzione del libro che il capitolo conclusivo, ad opera dell'editore, rilevano la fecondità del confronto delle posizioni. Ciò che è particolarmente apprezzabile è la fermezza con cui ogni autore espone le proprie convinzioni senza scivolare in un intento conciliatore che appiattirebbe tutto, unito ad un sincero rispetto delle posizioni avverse,  delle quali viene sempre fatto un giudizio critico che rileva sia il positivo che il negativo. Chi scrive si ritrova pienamente nella posizione battista; tuttavia ha parzialmente rivisto le proprie convinzioni sul battesimo – che in diversi ambienti evangelici viene equiparato né più né meno che ad una testimonianza pubblica della propria conversione – ammettendo che la rigorosa distinzione tra forma e sostanza, o tra materiale e spirituale è spesso il frutto più di un pensiero postmoderno che radicalizza queste dicotomie, che non di un pensiero biblico che tendenzialmente non le oppone.
            Sempre per chi scrive è stato inoltre interessante – anche se non certo rassicurante - osservare la molteplicità di posizioni esistenti nella teologia protestante sul battesimo. Generalmente in un paese di cultura cattolica si ha la tendenza ad elaborare una teologia del battesimo (e non solo) in primis scritturale, ma in secundis – inevitabilmente e  più o meno consapevolmente -  contrassegnata dall'esigenza di chiarificare la propria fisionomia rispetto alla teologia cattolica. Se ne potrebbe derivare l'impressione di un fronte protestante unito, per lo meno su un concetto come quello del battesimo. Il testo in questione mostra l'illusorietà di un simile pensiero e la complessità del lavoro teologico da un lato ed ecumenico – inteso anche solo tra chiese protestanti – dall'altro. 
                                                                                                               Stefano Molino - DIRS GBU

lunedì 2 marzo 2015

Ivan Illich uomo, pensatore, cristiano



Franco La Cecla, Ivan Illich e la sua eredità, Medusa, Milano, 2013, pp. 117, € 13,00

Recensione: Daniele Mangiola

Leggere è un gesto semplice, ma anche complicato. Confrontarsi con uno scritto significa entrare in una relazione multiforme con le idee di qualcun altro, colui che ha scritto. Che relazione c’è fra biografia e idee? Quanto vissuto c’è tra le pagine di un autore qualsiasi? Quanto necessario è lo sforzo di conoscere la vita, le azioni, i gesti della persona che ha espresso le idee con le quali ci confrontiamo in quanto lettori? E inoltre, quale obbligo abbiamo, in quanto lettori, alla fedeltà rispetto all’autore? Che relazione ci lega, in quanto persone? In che misura ciò che leggiamo “appartiene” a noi? Questioni infinite e per nulla originali, tra l’altro e, alla fine, ciascun lettore si pone in un suo particolare modo rispetto al testo e al suo autore.
In ogni caso, nei libri, si cerca se stessi, in un modo o nell’altro. È della propria vita, del proprio essere che si legge, in quanto lettori, dentro parole e idee altrui. E i modi in cui ci si specchia in quelle idee sono tanti.
Ci sono persone per cui le idee sono un lieto divertissement con cui baloccarsi finché si ha voglia a patto che questo non intacchi più di tanto le comodità del vivere quotidiano. Che poi sono la gran parte, al punto da legittimare la cinica considerazione che le questioni di principio, siano roba da oziosi, da gente che, in fondo, ha la pancia piena e può permettersi il lusso di trastullarsi con le astrazioni a tempo perso, per hobby. Che l’etica sia una cosa per tempi di benessere. Pare cosa da eccentrici il fatto che l’incontro di una certa idea possa realmente stravolgere l’esistenza.
Leggere bene e razzolare male è una pratica molto diffusa, e non è da meno l’altra pratica del predicar bene e intanto persistere in razzolate alquanto slegate da quanto si predica.
Ci sono poi i casi in cui idee e gesti si legano all’insegna di una coerenza che fa rima con testimonianza. Tra questi uno esemplare è quello di Ivan Illich. Di lui ci racconta Franco La Cecla nel suo ultimo Ivan Illich e la sua eredità, edito da Medusa. Tutte le contorte considerazioni precedenti rientrano nell’introduzione del libro qui presentato, che non si vuole proporre come una introduzione all’opera di Illich; un’opera la cui conoscenza in Italia è ancora episodica, affidata a militanze diverse le quali adottano a manifesto questa o quella idea illichiana senza avere una adeguata conoscenza dell’insieme del pensiero di un autore così poliedrico e dinamico. Perciò anarchici, cattolici progressisti, sostenitori della decrescita felice, tutti si richiamano all’una o all’altra delle proposte di Illich. E sembra manchi invece una lettura “disimpegnata”, non militante, dell’opera di questo autore, organica e di ampio respiro, che si preoccupi di guardare anche alla vita dell’uomo, autore dei testi. La natura particolare e particolarmente impegnata della sua coerenza.
Ma anche la coerenza è un gesto, in fondo. Ed è questa forse la catena del pezzo di mondo che chiamiamo Occidente, la continua interferenza del leggersi sull’agirsi, e dell’agirsi sul comprendersi, in un circolo virtuoso, o vizioso, dipende.
“Il mio ritratto di Ivan non è completo, non è esaustivo ed è maledettamente legato al rapporto personale che ho avuto con questo uomo e all’influenza che egli ha esercitato e ancora esercita su di me. Da questo punto di vista non pretendo di essere un fedele lettore del suo pensiero e non voglio essere identificato con un suo seguace. Anzi ritengo una fortuna non essere illichiano, come per altro non era nemmeno Ivan” (p.11).
Il testo di Franco La Cecla si snoda attraverso agili capitoli di piacevole lettura, fotogrammi che tentano di incastonare momenti dell’attività intellettuale entro contesti di vita vissuta nell’intenzione di raccontare come i due aspetti si integrassero e influenzassero reciprocamente nella biografia di Ivan Illich; ovviamente con l’occhio e la voce di chi racconta se stesso entro le immagini descritte, a partire dal primo incontro del 1980.
I diversi passaggi dall’Italia di Illich, che proprio qui aveva cominciato la propria formazione che lo aveva portato all’ordinazione a sacerdote della Chiesa Cattolica nel 1951. E negli anni Ottanta egli veniva in Italia come uno dei punti di riferimento del movimento dell’auto-costruire come nuova forma dell’abitare, di cui La Cecla era uno degli attivisti e promotori. Illich, che parlava di convivialità come forma del con-vivere a dimensione dell’uomo, dell’individuo, contro una società della tecnica che tende a ridimensionare sempre più l’umano per far posto alla macchina e alla sua produttività.
Illich, poliglotta fin da bambino, un po’ croato un po’ ebreo a Vienna, dalla quale deve fuggire nel 1941 a causa delle leggi antisemite, rimasto apolide per sempre e straordinariamente capace di essere a casa propria in ogni terra. Illich capace di incantare i suoi ascoltatori per la sua eccezionale capacità di esprimersi nella loro stessa lingua ma anche con il fascino della sua persona.
Con veloci e vividi schizzi il testo di La Clecla riesce davvero ad accompagnare il lettore vicino al protagonista del suo racconto, ci si sente quasi tra il folto e variegato gruppo di seguaci di cui amava circondarsi, cercando sempre, ovunque si trovasse, delle sistemazioni adatte ad ospitare quelle movimentate comunità.
A partire dal suo punto di vista di amico e seguace non allineato l’autore ci racconta momenti salienti degli ultimi vent’anni di vita di Illich, quelli segnati dal tumore al viso con il quale decise di convivere rifiutando le cure mediche tradizionali sia per non rinunciare alla sua intensa vita di ricercatore e conferenziere in giro per il mondo, ma anche per coerenza con la sua critica radicale alla scienza medica moderna.
Nemesi medica, pubblicato nel 1976 aveva creato grande scalpore con la sua denuncia di come la pratica medica moderna, contrariamente alla promessa di miglioramento della qualità della vita, anzi, proprio in forza di questa promessa, abbia di fatto espropriato l’individuo della responsabilità del proprio corpo che diventa oggetto di cura e controllo costante da parte del personale medico. La stigmatizzazione della malattia e della sofferenza in realtà ha creato una situazione di costante concentrazione sulla malattia in fuga dalla quale, l’individuo, trasformato vita natural durante in paziente, è oggetto del controllo continuo di tecnici a cui ha affidato la stessa coscienza della propria vita corporea.
La Cecla racconta di come la coscienza della malattia e dell’approssimarsi della morte (che poi fu meno veloce di quanto Ivan, come La Cecla lo chiama spesso, si aspettasse) modifica gradatamente la personalità stessa di questo uomo coraggioso e attivissimo. La passione per la ricerca delle criticità nascoste entro le pieghe del sistema della modernità, diventa sempre più intrisa di denuncia, “arrabbiata”, come la definisce l’autore, come di un uomo che sente sempre più forte l’urgenza di dire tutto quello che ha da dire prima che sia troppo tardi, sempre più deluso di non vedere accolto il suo messaggio, in faccia ad una modernità che invece dimostra di andare proprio nella direzione autodistruttiva che egli già dagli anni 60-70 profetizzava, ma con una velocità superiore alle sue stesse previsioni.
La casa di Berkley, dove nei primi anni Ottanta egli aveva raccolto attorno a sé una piccola comunità di studiosi e ricercatori, respira questa tensione di un uomo che ha sempre meno tempo per gli altri a meno che non siano funzionali al suo progetto. È in questo clima che avviene la rottura dell’amicizia tra Illich e La Cecla, considerato troppo “indisciplinato” dal maestro, una rottura che durò cinque anni. È in questo stesso clima che Ivan termina e pubblica Genere e sesso, troppo in anticipo sul proprio tempo, accolto malissimo dalla stampa americana.
“Insomma mi sembrava che Ivan fosse vittima di una rigidità ideologica dovuta alla voglia di rendere il suo pensiero il più acuminato possibile, ma che questa rigidità rendesse il suo pensiero ‘inutilizzabile’, inappropriabile davvero da chi aveva voglia di cambiare le cose… Oggi penso che effettivamente se le idee di Ivan sono diventate patrimonio comune lo si deve al fatto che arrivano filtrate da anni, dal fatto che in qualche modo sono sopravvissute al ‘modo’ con cui Ivan voleva renderle efficaci” (p.84).
È questo l’interrogativo di fondo del testo di Franco La Cecla, cosa rimanga di un pensiero così radicale e vasto, frammentato com’è tra “ismi” e militanze diverse che a esso si rifanno. E se alcune delle critiche illichiane al sistema sono diventate di moda è anche perché a questa lettura parziale sfugge la sua denuncia radicale di un sistema che tende ad assorbire e rendere funzionali anche le voci critiche, sfruttandole per il proprio potenziamento. E se ecologismo, naturalismo, tendenze libertarie, addirittura, sono diventati programma in agenda della Chiesa Cattolica è anche perché in questo modo si è spuntata la più radicale e sistematica critica di un Ivan Illich che ad un certo punto aveva rinunciato al suo servizio sacerdotale, senza peraltro mai abbandonare il sacerdozio.
E quanto radicale è la critica cristiana di Illich? Questo è l’ultimo interrogativo di La Cecla. Andando a ricercare le origini cristiane delle fondamenta stesse della modernità questo scomodo pensatore evidenzia come la Chiesa in quanto istituzione abbia gradualmente contribuito al consolidarsi di un sistema delle cose corrotto, invece che svolgere il proprio peculiare compito di evangelizzazione e conversione del mondo. Letta in questo senso la critica illichiana indica la via per un ritorno al cristianesimo originario, premoderno, a partire dal quale guardare la contemporaneità.
Ma La Cecla si propone di andare un passo oltre, di leggere Illich non come un “pensatore cristiano”, ma come un “pensatore e basta”. Così la sua critica alle origini stesse della modernità diventa espressione di un dubbio, al quale, secondo l’autore, lo stesso Illich non è sfuggito, che il mondo moderno, del dominio della tecnica, disumanizzato, che ha ridotto l’individuo ad ingranaggio di un sistema autoconservativo, non sia semplicemente frutto della corruzione del cristianesimo, ma il risultato stesso del cristianesimo.
Che, in sostanza, da quella particolare visione del mondo e dell’uomo che il cristianesimo inaugurò non poteva che derivare un sistema strutturato così com’è quello in cui viviamo e pensiamo, che chiamiamo Occidente. Da Paolo, da Giovanni, dal grande mandato a portare l’evangelo a tutto il mondo, dunque, non poteva che risultare un mondo con le dinamiche e le criticità sulle quali ci interroghiamo.
Ma questo interrogativo è, dice La Cecla “spingere Ivan oltre di sé. Come se Ivan avesse arretrato di fronte alla possibile evidenza che il cristianesimo come immenso edificio portasse da sé le conseguenze che non sono solo deformazioni” (p.112). Illich è arrivato a questa radicale interrogazione? E se sì, ha poi davvero sentito il bisogno di “arretrare”?
Vista dall’ottica cristiana, questa critica, non nuova, è meno dirompente di quanto ad un pensatore laico come è La Cecla possa apparire. Perché dimentica il fatto fondamentale che in nessun momento Paolo, Giovanni, o le parole di Gesù hanno profetizzato un mondo perfetto, in nessun momento la Scrittura indica la strada per un distacco dal mondo “peccaminoso” per costruirgli un mondo concorrente, “santo”. Il portare la Buona Notizia di un altro kosmos, sistema delle cose, radicalmente diverso da questo kosmos, è sempre rimasto un pellegrinaggio entro questo stesso mondo, questo stesso sistema. Non è mai stato odio del mondo, sogno di una “Utopia”. È sempre stato amore del mondo così com’è, pur corrotto dal peccato.
Potremmo discutere, e lo facciamo, su come e quanto l’amore per il mondo sia diventato complicità con esso e di tante altre cose di questo genere, ma in nessun momento l’Evangelo è stato promessa del paradiso in terra e sempre è stato ben chiaro che un giorno tutto questo nostro mondo avrà, invece, fine.
Rimane l’impegno quotidiano, in quanto cristiani, a mantenere lo sguardo vigile e attento, contro le mille tentazioni del sistema, e in questo senso ad essere testimoni di una controcultura che indica il mondo di Dio, lo anticipa, anche, ma non coltiva il sogno di impiantare il regno di Dio in terra. E anzi, la storia insegna come i tentativi fatti in questa direzione abbiano sempre generato mostri terrificanti. Per questo impegno di testimonianza, sono importanti la forza e la coerenza di pensieri come quello di Ivan Illich uomo, pensatore, cristiano.