mercoledì 14 gennaio 2015

Telemaco, o dei figli che cercano un padre

M. Recalcati, Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli, Milano, 2014, pp. 153, € 8,00
Recensione: Daniele Mangiola


Nessuno può mai dire che tipo di genitore sarà finché non si trovi con un figlio tra le braccia. E il fatto stesso che possano esserci differenti tipi di genitore è un problema tipico del nostro tempo. Non abbiamo più quell’unica visione premoderna della vita e della famiglia in cui si trova un unico modello genitoriale, la madre, colei che offre le cure, la protezione, l’abbraccio, la casa, il padre, colui che instrada alla vita, apre la porta e indica il mondo là fuori, il cammino che porta lontano da casa. La modernità ha messo però talmente in crisi il principio di autorità al punto che la figura che la incarnava, il padre, si è “evaporato”, per usare una terminologia derivata da Jacques Lacan.
Come restare padri nel tempo dell’evaporazione del padre era stato un problema affrontato in una pubblicazione di un paio di anni fa da Massimo Recalcati, psicoanalista di dichiarata fede lacaniana. Sulla stessa strada continua il suo successivo Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre. Recalcati è uno di quegli autori che piacciono tanto all’editoria italiana, capace di conquistare il lettore medio (una edizione in “Serie Bianca” e due in “Universale Economica” per Feltrinelli, del presente libro) pur mantenendo il rigore dello studioso. Una scrittura carica di forza evocativa (che dire di “Siamo tutti Telemaco. Abbiamo tutti almeno una volta guardato il mare aspettando che qualcosa da lì tornasse”? p.14) e una concettualità fluida e ricercata.
E’ che per reazione all’evaporazione della propria autorità, a quanto pare gli adulti hanno abdicato alla propria responsabilità di educatori, così che “non prevale tanto il genitore-educatore ma il suo rovescio speculare: la figura del genitore-figlio” (p.59). Sono evaporati anche gli adulti, insieme all’autorità che incarnavano, fissati in una eterna adolescenza, coetanei dei propri figli. Per evitare alla discendenza la traumatica esperienza dello scontro con la parola della Legge, i genitori hanno inscenato una pantomima del costante godimento ad uso e consumo della prole. L’esperienza individuale e familiare assurge a paradigma sociale ed esistenziale e dunque noi tutti, figli di questo Occidente, siamo costantemente cullati dal miraggio di un godimento ininterrotto, sommersi di oggetti e così storditi da un benessere senza freni, senza Legge Altra, né Dio che si opponga, il godimento diventa solo dio e legge.
Una spensieratezza triste, però, segnata da un bisogno compulsivo del godimento, un dio tirannico perché mai sazio, in una grande giostra di oggetti seducenti tutti uguali e dalla vita breve, sfiancati dall’inseguire il capriccio dei figli ai quali nessuna responsabilità è stata insegnata. “Restituire valore al carattere simbolico della Legge implicherebbe per i genitori saper rinunciare alle aspettative narcisistiche sui loro figli” (p.64), ma l’adulto ha subìto un processo di “adulterazione” (p.68) che lo ha portato alla rinuncia delle proprie responsabilità.
E se essere genitori è diventato tanto problematico, l’essere figli non è oggi affatto uno scherzo. La psicoanalisi ha insegnato come è nello sguardo della madre e del padre che il figlio trova l’immagine di sé, si riconosce. Nella figura di Edipo la sapienza psicoanalitica ha rintracciato il paradigma del figlio che individua nel padre il limite da oltrepassare per affermare se stesso. Ma che ne è di Edipo in un tempo in cui del padre non ne è più nulla? È passato il tempo del figlio-Edipo (p.98segg), dice Recalcati, ed è passato anche il tempo del figlio-antiEdipo (p.102segg), che evita il conflitto col padre-Legge semplicemente perché non ne riconosce più la paternità; è venuto dopo il tempo del figlio-Narciso (p.107segg), in cui “l’idolo-bambino impone alla famiglia di modellarsi attorno alla legge arbitraria del suo capriccio”: non ha avuto alcun padre che lo ponesse di fronte al limite, alla parola di una Legge Altra, altra dall’imperativo del suo proprio godimento.
Di nuovo c’è che dai figli si eleva ora una domanda di Legge, una domanda di limite, il bisogno di por fine a questo circo del godimento senza freno, “invocano il padre non come ostacolo – come accade per Edipo – ma come possibilità di riportare la Legge della parola nella propria casa” (p.116). Questo è il tempo del figlio-Telemaco (p.111segg), che vive l’assenza del padre come attesa del suo ritorno. Mentre i Proci assediano la sua casa, Telemaco guarda al mare aspettando che Ulisse torni. Ma non si limita ad un atteggiamento nostalgico, anzi agisce, parte alla ricerca del padre. Oggi, in un mondo senza autorità, senza Legge, senza limite, questi figli chiedono soltanto che qualcuno faccia da padre.
Altro tema caro a Recalcati è quello dell’eredità trattato questa volta dal punto di vista del figlio, dell’erede. Ereditare è accettare il debito simbolico nei confronti del padre, quale che esso sia; ci sono due modi di fallire il gesto dell’erede: l’uno è quello dell’identificarsi passivamente con il lascito paterno, nella mera ripetizione di ciò che è stato (p.124), l’altro è quello di rifiutare il debito simbolico, nel non riconoscere il padre (p.130). Per diventare erede bisogna prima di tutto diventare orfano, perdere il padre, confrontarsi con il lutto. Non accettare la perdita del padre, in psicoanalisi, è restare bloccati nel figlio che non sa camminare con i propri piedi, non sa prendere la propria strada, farsi carico e amministratore dell’eredità. All’altro opposto si può diventare orfani per aver eliminato il padre, per averlo ucciso, facendosi padri di se stessi, rifiutando di essere orfani. Il “giusto erede” (p.121) è il figlio che si fa figlio, che adotta il padre anche se sa rinunciare ad esso, elaborarne il lutto, “la rinuncia al padre diventa cosa ben diversa dal rifiuto del padre” (p.94).
Tutto il discorso di Recalcati si muove in continuazione tra i piani diversi dell’esperienza individuale-relazionale, sociologico-politica e esistenziale-religiosa. Frequenti richiami alla situazione attuale italiana, al fallimento della classe politica ridotta a banda di eterni adolescenti determinati dall’unica legge del godimento, incapaci del gesto responsabilmente adulto di essere guide, testimoni di un Desiderio che incontra la Legge della parola, la parola della Legge. Costante il rimando alla tematica del divino, sono la prima e l’ultima parola del libro. “C’è stato un tempo in cui pregare era come respirare, in cui pregare era un evento della natura” (p.19) è l’incipit, per poi terminare nell’identificazione Gesù-Telemaco (p.117 e 145).
Massimo Recalcati, pur dichiarandosi nettamente laico, distante dall’esperienza religiosa, è un autore caro al mondo cattolico: spesso invitato in conferenze e dibattiti sulla famiglia, la tematica della paternità, la crisi sociale contemporanea, frequentemente citato. Piace questo suo appello alla necessità del ritorno del Padre, della sua testimonianza come eredità da trasmettere, questo rimando speranzoso ad un recupero dal Padre, dal basso, per così dire, per iniziativa dei figli che ne richiedono e ne attendono il ritorno. E’ quel tipo di rassicurazione che piace tanto in ambito cattolico.
Tornando al testo, uno dei richiami frequenti è, ovviamente il Nietzsche di “Dio è morto”. E’ morto quel Pater altissimo, irraggiungibile, severo e monolitico, ed è una buona cosa, certo, solo che senza padre l’uomo si è smarrito nelle tragiche derive totalitarie di cui il Novecento è stato testimone, in cui quel vecchio dio è stato rimpiazzato da una divinizzazione della parola umana diventata ideologia. Sono poi finite le ideologie, sono morti quei padri folli e sfrenati e oggi c’è dovunque un grande bisogno del ritorno del Padre. Con un volto nuovo, ingentilito, certo, ma la speranza è che torni a riportare la Legge nella nostra casa.
“L’uomo è all’altezza del compito che gli impone la propria libertà?” (p.44). Il delirio delle ideologie e dei totalitarismi ha dimostrato che essere liberi non è facile, che ad essere senza padre si finisce per farsi padri di se stessi. L’autore arriva (p.48) a dare di Nietzsche un ritratto “moralistico” come di colui che si interroga sul come abitare una libertà senza padre, sul come essere uomo senza idoli metafisici, colui che avverte che la libertà assoluta è pericolosa. C’è qui a mio avviso uno scivolamento sottile, ma sostanziale su quanto di Nietzsche è stato detto da Heidegger: Nietzsche è ancora entro il mondo dominato dal fantasma di Dio, non ha affatto elaborato il lutto, ha ancora le mani sporche del sangue del Padre, è l’ultimo grande discorso metafisico, non si pone affatto fuori dalla vecchia entificazione del dio della morale. Questo significa che i totalitarismi tragici del Novecento non sono la dimostrazione che l’uomo non sappia essere libero, non sono gli effetti della morte di Dio. Sono la dimostrazione della morte di Dio. Non è che “Dio è morto”, è che “noi lo abbiamo ucciso”. Dio era diventato così tanto una Cosa che alla fine lo abbiamo eliminato. I totalitarismi sono stati l’uccisione di Dio per fare posto ad un altro dio umano. La “morte di Dio”, dice però Bonhoeffer, è stata una cosa buona, quello era soltanto un Dio tappabuchi destinato a retrocedere ad ogni passo in avanti dell’umanità. Nessun rimpianto, nessuna nostalgia. Quel Dio era un altro idolo umano un ricettacolo di immagini antropomorfe, di pulsioni frustrate e poi sublimate.
Suonano rassicuranti, in termini di etica della famiglia, le affermazioni di Recalcati, sul fatto che, anche se la Legge non si identifica con il Padre, è però soltanto nel Padre che il figlio lo può trovare, sul fatto che anche se il padre è assente, non è la sua assenza “a essere traumatica in se stessa; dipende da come essa viene trasmessa simbolicamente dalla parola della madre” (p.113); sembra qui riprodotto il quadretto tradizionale della famiglia, con un padre magari assente per procurare il pane necessario alla famiglia, come accadeva nella pubblicità di una certa pasta. Un padre, inoltre, che non dispone della propria immagine, la quale è amministrata presso il figlio dalle parole della madre (quale madre? La Madre Chiesa?).
Fortemente evocativa, infine, l’immagine di Telemaco che non si rassegna alla perdita del padre, ma lo attende, anzi, fa di più, parte alla sua ricerca, corre in suo incontro per riportarlo al suo posto. Dopo le tragedie del Novecento, Dio Padre è talmente debilitato da aver bisogno di essere salvato dall’uomo. Come nelle parole di Etty Hillesum, ebrea cattolica, vittima della Shoah. Pure Massimo Recalcati è ebreo e questa tematica dell’uomo che difende Dio è presente anche in tanta sapienza talmudica tradizionale. Ma, sempre in ambito ebraico, Martin Buber distingueva invece nettamente la teocrazia dalla ierocrazia, dal luogo in cui, cioè, la parola divina è soggetta ad amministratori umani. Le due o tre volte in cui nel libro la parola “anarchia” è presente, è solo e nettamente nella sua accezione negativa, popolare. Ogni ribellione alla legge è sempre patologica, espressione di una nevrosi, la legge è sempre giusta o perlomeno, sempre rettificabile dall’interno, il suo rifiuto espone sempre alla perdita di sé.
A conti fatti il discorso di Massimo Recalcati è avvincente, importante, su una tematica di scottante attualità, condotto con perizia, e sempre intenso, grazie anche al suo talento di scrittore, resta però da vedere se davvero Dio della Bibbia intenda essere quel Padre del conflitto, che deve frustrare la istintiva pulsione al godimento per far incontrare Desiderio e Legge, se questi adolescenti alla ricerca di un padre forte, anche se gentile, che finalmente sappia riportare nella loro casa la legge, siano poi davvero dei “giusti eredi”, se non siano soltanto dei figli ancora feriti, senza altra prospettiva che il desiderio nostalgico del ritorno di un tempo che non può più tornare.


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