domenica 11 ottobre 2015

Film e Filosofia - La Hannah Arendt di Marga



Margarethe von Trotta, Hannah Arendt, DVD+Libro (Scritti di Simona Forti), Feltrinelli 2012.

Per questo lunedì letterario estivo ho scelto di deviare parzialmente dalla linea consueta recensendo un’opera composta dal bel film su Hannah Arendt della regista Margarethe von Trotta corredato nel cofanetto Feltrinelli da una raccolta di saggi di 80 pagine, intitolata: “La normalità del male” di Simona Forti, docente di storia della filosofia politica ed esperta del pensiero di Hannah Arendt.

Il film, sottotitolato in italiano, è girato contemporaneamente in tedesco ed in inglese, a seconda degli interlocutori che intervengono, oltre ad alcuni interventi in ebraico. Aprendosi su una scena che evoca la persecuzione degli ebrei nella Germania nazista, il film racconta un frammento della vita di Hannah Arendt compreso tra il 1961 e il 1965, in cui  la filosofa, fuggita negli Stati Uniti d’America e docente di filosofia presso una prestigiosa università, si reca a Gerusalemme per assistere al processo di Adolf Eichmann, il criminale nazista rapito in Argentina dal Mossad e portato in Israele.  Le viene commissionato dal New Yorker un articolo su questo processo che una volta pubblicato susciterà forti reazioni da parte della comunità ebraica. Von Trotta narra egregiamente la vicenda che vede la filosofa sconvolgere le categorie tradizionali con cui era stato fino a quel momento letto il problema dell’olocausto, sostenendo che Eichmann non fosse un mostro ma un ‘banale’ ingranaggio di un meccanismo totalitario capace di annullare in un intero popolo la facoltà di distinguere tra il bene il male. In questo sistema aberrante è banale il male commesso dal criminale, come anche quello di alcuni capi ebrei che collaborarono con le autorità naziste, argomento fino a quel momento taciuto da parte ebraica. Il film descrive bene lo scontro tra la Arendt , interpretata da una capacissima Barbara Sukowa, e il gruppo dei suoi amici intellettuali; ne perderà alcuni (Kurt Blumenfled, Hans Jonas tra gli altri)  ma avrà il sostegno affettuoso del marito, il poeta e filosofo Heinrich Blücher, (interpretato da Axel Milberg) e dei suoi studenti. Significative anche le scene del processo originali inserite nel film

Il film ha l’indubbio merito di riportare alla riflessione contemporanea la posizione della Arendt sul problema del male, ampiamente spiegata e argomentata, tra gli altri, nel ben noto testo: “La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme” (1963) ma ora rilanciata sotto forma cinematografica, ad uso anche della domenica della memoria (Il film è stato diffuso su Raitre lo scorso 27 gennaio). I saggi critici di Simona forti ne approfondiscono alcuni aspetti che qui riportiamo.

Il primo saggio, “Un processo esemplare” racconta l’evoluzione del pensiero arendtiano nel corso del processo. Si pone il problema della sua legittimità, essendo un processo fatto da uno stato che non esisteva quando il criminale agiva, e dopo un rapimento dell’imputato da parte dei servizi segreti israeliani. La Arendt in un primo momento era favorevole, trovandolo politicamente e giuridicamente l’unico modo per fare giustizia alle vittime, ma rivede le sue opinioni in corso d’opera, ipotizzando che l’intero processo sia una mossa di Ben Gurion per legittimare lo stato di Israele, e mettere sotto accusa di antisemitismo non solo la Germania nazista ma tutti gli stati europei. In questo contesto l’articolo diventa materiale per il noto saggio sulla banalità del male, da cui emergono i due problemi centrali della non mostruosità di Eichmann e del collaborazionismo dei capi ebrei. Se non ci fosse stato un sistema organizzato all’interno del popolo ci sarebbero state meno vittime. I carnefici avrebbero puntato sulla razionalità dell’autoconservazione delle vittime ed in questo modo ottenuto la loro collaborazione. Il carnefice è quindi privato di quella mostruosità che lo aveva finora caratterizzato e la vittima caricata di responsabilità finora lette come semplici mali minori. Tutto ciò, secondo Arendt, non è che il risultato di un totalitarismo capace di annullare il pensiero nell’individuo, in nome del rispetto delle norme.

Il secondo saggio, “La doppia eredità di una nuova provocazione”, tenta di trarre un bilancio del successo delle tesi di Hannah Arendt a 50 anni di distanza delle pubblicazione della banalità del male. Simona Forti ritiene che alcuni elementi teorici  utili a concepire e definire il male siano entrati nella tradizione filosofica. In particolare i due concetti secondo cui c'è connessione tra male e assenza di giudizio, e tra male ed obbedienza. Concetti che Arendt imputa al kantismo in quanto potenzialmente responsabile di proporre un'etica in cui la legge stessa diventa il bene, e l'obbedienza alla stessa un contenitore vuoto, che in una collettività come quella della Germania, trova nel rispetto di regole definite dallo stato il bene supremo, quand'anche queste impongano lo sterminio di coloro che non hanno diritto di umanità secondo i parametri definiti dallo stato. Sicuramente la lettura di Kant fatta dalla Arendt pecca di imparzialità e di incompletezza, ma pone al contempo nuclei teorici imprescindibili per la definizione del male.


Il terzo saggio: “L'antinomia tra etica e vita e tra etica e legge”, è il più lungo e denso, ed analizza lo sviluppo del pensiero di Arendt partendo da un suo saggio del 1966, intitolato Alcune questioni di filosofia morale. Arendt vede il passaggio da radicalità del male (il male assoluto) a banalità  quel cambiamento che avviene nel rapporto tra sfera pubblica e scelte soggettive per cui la Germania nazista è riuscita a ridefinire una tavola di valori che ha sconvolto i parametri dell'etica tradizionale. Anna Forti ripercorre l'itinerario della Arendt definitosi nel dialogo con tre grandi filosofi della tradizione occidentale: Nietzsche, Kant e Socrate. La Arendt abbraccia l'idea nietzschana secondo cui la coscienza non è autoevidente, come la tradizione classica ha sempre ritenuto, ma contesta al filosofo tedesco di rimanere attaccato ad una concezione del bene, secondo cui conservazione della vita è in fondo il bene ultimo. Se per i greci l'attaccamento alla vita biologica era visto come una sorta di vigliaccheria ed il sacrificio di questa per un ideale più alto un valore, nel cristianesimo la vita materiale in quanto dono di Dio è tornato ad essere il bene ultimo. Arendt rimprovera Nietzsche, in modo superficiale secondo Forti, di non avere saputo superare questo livello biopolitico nella sua critica al cristianesimo. In questo però è molto vicina a Kant, in quanto separa in modo forse troppo netto necessità e libertà. Arendt sostiene che è necessario un qualcosa di più della vita biologica che fondi la soggettività come soggetto etico, e quindi la sua violazione come male. Si passa dunque  a Kant che ha avuto il merito di non cercare questo “qualcosa in più” nella religione,  liberando la morale dalla religione, e legandola all'imperativo categorico quindi alla ragione. Ma anche Kant, nella lettura di Arendt rimane imprigionato in una struttura verticale che lega ragione e volontà per cui il bene è comunque obbedienza ed il male trasgressione. Il “tu devi” rimane così un contenitore vuoto, e sul contenuto del bene e del male Arent si allontana da Kant, al punto da vedere nel concetto di obbedienza  una delle cause del collasso etico della società novecentesca, incarnato da Eichmann. 

La coscienza diventa dunque in meccanismo di de-responsabilizzazione e permette dei mali. Agisce unita alla volontà, che mettendo a tacere istanze contrapposte nell'io si trasforma in conformità ad un comando. Il bene in queste concezioni è sempre qualcosa di dato ed esterno a cui conformarsi, ed è conseguenza dell'eredità delle religioni rivelate.
La critica rivolta al cristianesimo è piuttosto pungente. Il cristianesimo infatti avrebbe trasformato il conflitto interiore tra "io voglio" e "tu devi"  in un conflitto tra Dio, o l'autorità ecclesiastica, e il soggetto umano che se obbedisce vive moralmente ma se disobbedisce vive nel peccato. Giusto ed in giusto coincidono con conformità e non conformità e la questione morale si esaurisce in una dialettica interna alla coscienza.
Per scardinare questa impostazione bisogna rivalutare il giudizio riflettente, capace di giudicare anche in assenza di leggi precostituite. Chi non si conforma ad un regime fornisce all'autrice un punto di partenza che la riconduce al pensiero di Socrate nella sua dottrina del daimon che sa dire soprattutto di no: meglio essere in conflitto con il mondo che con se stessi. Il male, o la banalità del male,  è quindi l'incapacità di distanziarsi dal contesto in cui ci si trova, senza riuscire a  resistervi. Il Cristianesimo ha ridotto il conflitto interiore alla coscienza in un'unità, mettendo a tacere l'io voglio, alle esigenze dell'io devo; nella filosofia socratica si trova invece una dualità, simile alla coscienza, che è una capacità di pensiero, che non scorda il passato e sa staccarsi dal presente. Questa facoltà di pensiero distingue l'uomo dall'animale ed è il qualcosa di più rispetto alla vita biologica che fonda il soggetto etico. La divisione tra l'io e se stesso è la condizione di possibilità di pensiero, il trascendentale della libertà e la condizione di imputabilità del male al contempo.
La lettura di alcuni appunti di Arendt e del saggio La vita della mente svela una rilettura della coscienza socratica in termini moderni: la coscienza è divisa in una parte temporale ed una parte appercettiva che ambisce all'eternità. Il male è l'egemonia di una dimensione sull'altra, sia di quella temporale che ha come unico fine il mantenimento della vita, sia quella eterna che porta a deliri di onnipotenza. Il giudizio critico vive laddove rimane viva la dialettica tra queste due dimensioni dell'io.
La domanda da porsi non è dunque cosa sia il male, ma come e perché si arrivi ad un'esperienza di potere in cui si afferma un sistema di dominazione che cancella la possibilità di giudizio critico.
Accanto alla duplicità interiore degli eroi negativi di Dostoevskij bisogna, secondo Arendt, inserire una generazione di eroi negativi alla Eichmann che vivono il male secondo la dimensione dell'assenza di normatività e di non-giudizio passivo.
Nel quarto saggio, infine,  "La soggezione come rimedio alla superbia", Simona Forti si concentra nuovamente sul problema dell'obbedienza, mostrando che il ruolo della soggezione nell'etica era un problema che occupava la pensatrice anche prima delle sue riflessioni su Eichmann. Ripercorre l'itinerario arendtiano che tenta di spiegare perché un comportamento disprezzabile per i greci come quello dell'obbedienza sia diventato bene sommo. Il Cristianesimo, individuando nella predisposizione alla trasgressione un dato costitutivo dell'umano, diverrà facile preda di sistemi politici che tendono a dominare.
Si crea quindi un connubio stretto tra trasgressione, male, morte e potere che nasce dal primo termine. Certamente nella concezione cristiana il potere dell'uomo sull'uomo può essere frutto della libido dominandi, ed è giudicato male. Può però anche essere mosso da finalità redentive, perché sono necessarie delle guide, che concepiscano il potere come volontà di cura e che portino altri uomini verso la redenzione. Questo quindi porta non tanto verso la superbia ma verso l'umiltà. La trasgressione ha dunque un potere ambivalente. Può essere cicatrice che ricorda la colpa, ma anche, secondo un modello pastorale, desiderio di cura che riporta


Tra i numerosi spunti di riflessione posti sia dal film che dagli approfondimenti del libro, due si impongo al lettore cristiano. Il primo è quello di capire se il concetto di banalità o normalità del male sia compatibile con la configurazione biblica del male, e se la riflessione arendtiana, nella sua rilettura o illustrazione della regista Von Trotta e di Simona Forti, ne arricchisca la comprensione o se, mi si perdoni il termine, la "banalizzi". Ritengo che l'aver individuato un tratto fondamentale della natura del male, quello dello sfuggire a definizioni chiare, o del mascherarsi dietro le sembianze della normalità, anche concepita come esecuzione di un ordine, sia pienamente conforme con il concetto biblico di male quale la Scrittura lo illustra. Il male nella Bibbia non ha mai un chiaro perché, e le sue origini seppure descritte nel racconto della trasgressione, restano oscure. Per quanto nominato prima della caduta non si sa bene cosa fosse, né sono chiare lo origini del serpente che lo simbolizza. Più concretamente, le stragi perpetrate dal faraone nei confronti dei neonati ebrei o da Erode, hanno del "banale" laddove si pensa che il faraone si sarebbe aspettato proprio che le levatrici eseguissero ciecamente i suoi ordini, ed Erode che altrettanto facessero i suoi sudditi. Non c'è effettivamente bisogno di mostruosità in numerose forme di male presenti nella Bibbia, e a volersi spingere più in là si potrebbe riflettere sulla banalità del male commesso da Giuda, che non è presentato come un mostro che fa il male per farlo, ma è semplicemente assetato di denaro; o ancora riflettere sulla natura del peccato umano, della cui dimensione e portata siamo spesso inconsapevoli perché culturalmente condizionati a criteri assiologici che dipendono più dalla nostra cultura che dai valori proposti biblicamente. Certamente, se  il male “banale” viene imputato solo ad entità superiori al soggetto come lo stato totalitario, si rischia una deresponsabilizzazione dei singoli, come Eichmann, ma non sembra questa la traiettoria della Arendt. 
Più difficile accettare invece il secondo concetto che emerge con forza dal saggio, quello della responsabilità del cristianesimo e del nesso da questo creato tra morale ed obbedienza. Il nesso tra male e trasgressione è indubbio nelle scritture, e c'è sicuramente del vero nell'individuare nelle strumentalizzazioni politiche di questi concetti cristiani degli elementi responsabili di obbrobri come il nazismo. Il punto che tuttavia è in difetto è quello per cui la Arendt non sembra cogliere che la trasgressione condannata dal cristianesimo è grave proprio perché è trasgressione di un contenuto che non può mai prescindere dall'amore e dal rispetto dell'altro. Non è la trasgressione in sé di un imperativo categorico vuoto, ma è trasgressione rispetto a un qualcosa che tutela il divino come l'umano. E' vero che la Arendt salva Gesù o Francesco in quanto capaci di creatività e disobbedienza, ma il punto di scollamento tra l'imperativo categorico ed i suoi contenuti non può essere considerato come qualcosa di connaturato al cristianesimo - l'ultimo saggio, proponendo il concetto di potere come cura può forse andare in questo senso. Per altro, anche S. Paolo, accusato di aver affinato il collegamento tra disobbedienza e peccato, parla esplicitamente di "non conformità al presente secolo", (Romani 12,2)
Se così non fosse non si spiegherebbero i numerosi esempi di disobbedienza civile e resistenza, testimoni di quel distacco dal presente di cui si parla nel terzo saggio, che hanno tracciato la storia del pensiero biblico dalle levatrici che salvarono Mosé, fino a Dietrich Bonhoffer e via dicendo.
Difficile quindi individuare il fondamento dell'etica in una rilettura della dualità socratica interna alla coscienza, perché anche questa può originarsi in un contesto in cui i valori morali potrebbero essere completamente sovvertiti. Quali radici e quale pensiero riflessivo dovrebbe avere la soggettività di un bambino soldato o un baby-camorrista che dalla nascita viene abituato ad un sistema di vita irrispettoso dell'umano? Temo che il desiderio di fondare un'etica prescindendo da una rivelazione esterna sia un tentativo che rischia inevitabilmente di ricadere sull'umano che da sé non riesce a trovare né quel "qualcosa" che gli permetta di trascendere la sua vita biologica, istanza ricercata dalla Ardent, ma inevitabilmente inquadrabile solo in una prospettiva trascendente, né l'antidoto per i totalitarismi. 

Stefano Molino - DIRS GBU

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