domenica 16 marzo 2014

La grande bellezza: elogio del nichilismo o via d'uscita?

(Valerio Bernardi)


http://www.medusa.it/film/1229/la-grande-bellezza.shtml
Lo scorso mese, dopo quindici anni di assenza, il cinema italiano ha ricevuto l’Oscar per miglior film straniero grazie alla Grande Bellezza, film di Paolo Sorrentino che già si era fatto strada nelle altre rassegne di premi hollywoodiani che precedono la grande cerimonia. 

Devo ammettere, come spesso mi accade, che non avevo visto il film prima della premiazione un po’ perché gli altri film di Sorrentino (mi riferisco in particolare a Il divo) non sempre mi avevano entusiasmato, perché un po’ troppo “carichi”, rispetto ad argomenti che, a mio parere, dovevano essere trattati in maniera neo-realista (forse inizio anche io ad essere un po’ nostalgico di un certo genere cinematografico, data la mia età), un po’ perché, negli ultimi anni, non ho molto apprezzato il cinema italiano che mi è sembrato o troppo ripiegato su sè stesso, o produttore di commedie piuttosto volgari e vuote, senza riuscire ad avere quel respirto globale che aveva sicuramente raggiunto negli anni del Secondo Dopoguerra.

Pertanto, quando sono stato incoraggiato a vedere il film mi sono autoimposto di farlo. Devo dire che, alla fine, l’ho trovato interessante, non necessariamente bello, non necessariamente un capolavoro, ma sicuramente un prodotto notevole, forse anche po’ furbo, ma che deve essere considerato un buon prodotto. Non volendo entrare nei particolari tecnici (che non mi spettano, in quanto non ne sono competente) della fotografia (sicuramente bella e struggente al punto giusto), della trama (volutamente “inesistente” nell’intreccio e non tradizionale), degli attori (oltre a Servillo, quasi un novello Mastroianni, si riscoprono un Verdone ed una Ferilli interessanti), voglio parlare di alcuni aspetti di quanto succede e di eventuali significati e/o valori che possono essere desunti (senza per questo togliere nulla all’idea che l’arte è arte e che, tavolta, non va spiegata né emendata, ma accettata).

Intanto l’ambientazione. Il film inizia con il Gianicolo in cui si vede Roma e si conclude sempre con una vista di Roma. Roma è, quindi, la protagonista nascosta del film. Non si vede necessariamente una Roma da cartolina, ma una Roma struggente, decadente, dove sono passati migliaia di anni storia, dove tutto può accadere. Forse è proprio questa città che rappresenta la Grande Bellezza che i suoi abitanti e la sua cultura non riescono a vedere.

Accanto all’ambientazione, la cultura. Il paese fatto di “Santi, poeti e navigatori”, appare come una nazione svuotata. Gambardella dovrebbe essere uno scrittore, una persona di cultura (lo è, i suoi strumenti ermeneutici funzionano perfettamente: sa che sbattere la testa contro il muro non è arte), che proviene da Napoli (l’altro alter ego della nostra identità, nei suoi fasti e nei suoi disastri), ma che, dopo il suo primo romanzo, notevole per risultati letterari, si fa travolgere dalla vita mondana e culturale di Roma, di cui è protagonista la terrazza (con chiara allusione a quanto accadeva quasi all’opposto, nel film di Scola), dove si alternano vuoti discorsi, fatti da persone vuote, a vuoti trenini, “i più belli del mondo che non portano a nulla”, come dice lo stesso protagonista. L’umanità descritta dal film è piuttosto avanti negli anni (come l’Italia lo è), molto disincantata, che vive anche i “piaceri della vita”, quelli del sesso, del fumo, della droga, del divertimento e della distrazione con molta indifferenza e leggerezza (proprio per questo ritengo anche tali scene funzionali al senso del film).

A fare quasi da controaltare a tutto ciò, vi è il ruolo delle suore, non della Chiesa, ma della sua parte femminile. Qualcuno ha detto che nel film ci sono troppe suore (forse è vero). E’ proprio una suora, una specie di “Madre Teresa rediviva” (che si annoia molto durante la cena a casa di Gambardella e che quasi non parla in quell’occasione) fa rivelare allo scrittore il perché della sua stasi, svelando, quasi al termine del film, il motivo per cui sia intitolato La grande bellezza.

Fatte queste riflessioni, la domanda che sorge e che rimane è quella: ma cosa pensa Sorrentino dell’attuale situazione della società da lui descritta? A mio parere, il giudizio che ne viene fuori è piuttosto impietoso e, se la condanna, per il tono usato, per il tipo di film che si è voluto fare, non è chiara, diventa difficile credere che quello descritto sia propsota come tipo di vita ideale. Allo stesso tempo, benché possa pensare che la Grande Bellezza sia racchiusa proprio dentro la stessa città di Roma e che la vita sociale vuota la offuschi, come spesso accade nel cinema italiano (fatta eccezione per Benigni e pochi altri) la visione che ne esce è piuttosto disperata e cinica. 

Da evangelico (e anche da filosofo), la domanda che sorge è questa: come se ne esce? Si continua a ballare (è quello, tutto sommato, che accade nel film, dove solo la domanda sulla morte sempre più imminente sembra interrompere questa vita insensata), o piuttosto si cerca una proposta? Il film, quindi, va assolutamente visto, sicuramente discusso, va ritenuto uno spaccato della nostra Italia fatto in maniera piuttosto impietosa, ma lascia qualche dubbio sulla propositività e su quanto si possa fare. Sembra, quasi nichilisticamente, non trovare via d’uscita, come succede in parte per la nostra società. 

Valerio Bernardi - DIRS GBU

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