martedì 1 aprile 2014

Mario Miegge


Un filosofo “protestante”.
Ricordo di Mario Miegge
(Valerio Bernardi)
Qualche giorno fa è venuto a mancare in questa vita terrena Mario Miegge, figlio del pastore Giovanni (uno dei teologi che hanno portato ad una sorta di Barth-renaissance durante gli anni Cinquanta la chiesa protestante italiana) e, soprattutto docente di filosofia teoretica presso l’Università di Ferrara (di cui era stato uno dei fondatori) e, prima ancora, di filosofia della religione. Infatti, nel 1968, era stato tra i primi a vincere un concorso in filosofia della religione, nsegnamento che, sino a quel momento, era estraneo all’accademia italiana. Il mio maestro, Giuseppe Semerari, mi ricordava (essendo stato lui componente di quella commissione) che salirono in cattedra un cattolico (Italo Mancini), un laico (Alberto Caracciolo) e un protestante (Miegge per l’appunto). La conoscenza con Semerari aveva portato Miegge a frequentare anche gli ambienti dell’Università di Bari grazie alla collaborazione che, a partire dagli anni Ottanta, diede alla rivista di critica filosofica “Paradigmi” (di cui curò alcuni fascicoli, in particolare uno dedicato alla varietà delle manifestazioni religiose). Questa sua frequentazione mi ha permesso di conoscerlo, di diventare un suo interlocutore (anche se saltuario) e di avere sempre buoni consigli da parte sua per quanto riguardava il mio ricercare nel campo filosofico. La sua opera è stata sempre strettamente collegata al pensiero protestante e, in particolare, al problema del rapporto che vi era tra vocazione, lavoro e capitalismo in esso. Per meglio ricordare la sua opera, ci pare opportuno, in questa rubrica, riproporre alcune mie recensioni (di cui una pubblicata nel LL) di suoi libri che permettono di consocere meglio il suo pensiero teologico-filosofico, che gli ha permesso di dare un contributo originale agli studi filosofico.teologici in Italia. Ecco qui di seguito le tre recensioni, collocate in ordine cronologico che attestano anche la mia affezione nei confronti di questo pensatore e l’attenzione che gli ho rivolto nel corso degli anni.

Mario Miegge, Capitalismo e modernità. Una lettura protestante, Claudiana, Torino, 2005, pp. 74.
Il volumetto pubblicato dalla Claudiana di cui è A. il pensatore protestante, altro non è che la traduzione della voce Capitalisme, pubblicata nel 2001 per l’Encyclopédie du Protestantisme della Labor et Fides di Ginevra. 
Si ripercorre in quattro rapidi capitoli il rapporto che vi è stato tra capitalismo, laicità e modernità proprio a partire dal pensiero di riformato, visto, in questo caso, come predecessore della modernità. Dopo aver analizzato come la vocazione al risparmio e al lavoro sia stata una variante del concetto di elezione del calvinismo e su come questo concetto sia stato in parte travisato dalla interpretazione weberiana (tra l’altro ancora molto accettata dagli studiosi italiani non protestanti), Miegge discute come questo concetto sia parte di quel “calcolo razionale” (in cui si interpreta il dovere al lavoro come un segno della chiamata)  usato da diversi pensatori protestanti a partire da Calvino per passare poi ai Puritani (sia quelli inglesi sia quelli che fondarono gli Stati Uniti).  
Miegge analizza come da questo concetto secolarizzato, mutuato da una forte matrice teologica, siano derivati, soprattutto nei paesi che hanno subito maggiormente l’influenza protestante, il concetto di laicità e un maggiore coinvolgimento di tutta la società nella cosa pubblica. Proprio per questo motivo, sempre in questi paesi, oltre allo sviluppo del capitalismo sono nati anche i meccanismi di “aggiustamento” dello stesso, come lo Stato sociale, i nuovi giochi dello scambio e la tenuta in conto dello sviluppo dell’uomo, in genere.
Si tratta, in conclusione, di un saggio che ritorna ai temi più cari all’A. e che in qualche modo riassumono le sue posizioni. Il volume va quindi letto da coloro che vogliono cercare di capire come si sia sviluppato il pensiero di questo autore protestante italiano.


Mario Miegge, Che cos’è la coscienza storica?, Feltrinelli, Milano, 2004, pp. 235.

Il volume preso qui in esame sonda, da un punto di vista filosofico e politico, ma anche teologico, il concetto di coscienza prima e di coscienza storica poi.
L’A. ha diviso il testo in tre parti. Nella prima parte si discute del significato delle parole e dei concetti insiti in esso. Viene prima preso in esame il concetto di coscienza, sondandolo sia da un punto di vista semantico che psicologico e poi ad esso viene affiancato quello di storia, tipico della cultura occidentale che si è formata un vero e proprio sentire e riflettere sul proprio passato che non ha uguali nella cultura del mondo e che va attribuito sia alla riflessione dei Greci che al continuo riportare alla memoria presente nella cultura ebraica e, in particolare, nella teologia del patto.
Proprio partendo da queste due radici della coscienza storica inizia la seconda parte del saggio (quella più corposa) in cui sono esaminati esempi e autori della coscienza storica. Si inizia parlando della cultura dell’Antico Testamento, parlando sia del re Ezechia che delle popolazioni di Moab, per poi passare a vedere quale fosse la coscienza che si era formata presso i Greci durante il periodo delle guerre persiane. Un capitolo è dedicato al concetto di storia universale che, per la prima volta, affiora nella mentalità ebraica. Il Dio d’Israele è, infatti, il Dio dell’universo che regola la storia di tutti i popoli e, in particolare di quello scelto per il tramite di Abramo e Mosè, attraverso il patto stretto con questi patriarchi. Alla predicazione messianica ed al senso di storia è legato anche il capitolo dedicato a Savonarola, a Zwingli e ai Puritani. Dai Puritani Miegge passa poi all’esame dei Rivoluzionari francesi e dei rivoluzionari marxisti tra Otto e Novecento. La sezione si conclude con un richiamo a testi che vengono definiti basilari come quelli dei Padri Pellegrini del Mayflower, le dichiarazione dei garibaldini e alcune della Resistenza italiana.
Il volume è chiuso da un dialogo immaginario, introdotto da uno scritto di Vittorio Foa (uno dei testimoni della Resistenza), su come i militanti (di religione o di partito) abbiano sempre fede nell’evoluzione storica, dove tre persone Anna, Matteo e Antonio dialogano tra loro Antonio sembra essere il  più importante ed anche quello che, più anziano, rievoca, oltre ad una tradizione politica, anche parte delle sue radici religiose. Il dialogo costruito, quasi platonicamente, appare interessante, anche se non sempre appaiono chiare le conclusioni.
Il libro, soprattutto nella parte centrale, appare interessante per la tesi che vi è uno stretto legame tra militanza politica e religiosa e che anche i movimenti operai e rivoluzionari contemporanei sono pervasi da un certo messianismo. Forse si sarebbe desiderato una maggiore chiarezza sulla posizione dello scrivente del saggio che, anche se traspare nella figura di Antonio, non sembra essere sempre chiaro nell’esposizione della sua posizione. Resta un saggio interessante da leggere perché Miegge è uno dei pochi intellettuali italiani che tenta di coniugare militanza, pensiero filosofico e fede insieme, e, anche se non sempre concordiamo con le sue posizioni, esse vanno comunque apprezzate.

M. Miegge, Vocazione e lavoro, Claudiana, Torino, 2010.
Nel mondo sempre più globalizzato in cui ci troviamo, a parte qualche rara eccezione, anche in Occidente, lavorare è sempre più una semplice maniera di guadagnarsi da vivere, senza che questa possa tramutarsi in una sorta di chiamata da parte di Dio. In Italia, poi, la situazione forse è peggiore di quella di altri paesi in quanto, oggi, secondo alcune indagini statistiche, sembra che il posto di lavoro o il lavoro che si fa passa da padre in figlio (nel caso di posti “privilegiati”) o faccia intravedere un futuro di costante precariato (vedi precari nella scuola, operatori di call center etc.)
Eppure il mondo moderno, dopo l’avvento della Rivoluzione Protestante, non aveva visto il problema del lavoro, da un punto di vista teologico, come un qualcosa di degradante, ma come un momento in cui l’umanità poteva acquisire ulteriore dignità. Per capire come il concetto del lavoro secolare fosse, tra il XVII e il XVIII secolo, collegato, nel pensiero protestante a una chiamata direttamente proveniente da Dio, e di come la portata di questa idea debba essere considerata “rivoluzionaria” non per quanto scritto a inizio del XX secolo dal sociologo tedesco Max Weber, ma perché realmente cambia l’idea di vita di milioni di uomini in Europa..
L’opera di Miegge non è una novità: potremo dire che si tratta del saggio di una vita del filosofo valdese che sin dagli anni Settanta ha lavorato su questo testo (in precedenza ne erano uscite due edizioni parziali prima da Bovolenta con la prima parte del libro, poi in francese da Labor et Fides con il libro così com’è ad eccezione dell’ultimo capitolo) e che l’ha rivisto e limato nel corso degli anni. Dare una precisa definizione di questo testo è difficile perché Miegge ha voluto scrivere un saggio che è una via di mezzo tra una ricostruzione storico-teologica e un testo filosofico con qualche “punta” di sociologia e, per questo motivo, la casa editrice ha pensato che la migliore collocazione fosse quella degli studi storici, collocazione solo parzialmente appropriata.
Il testo, in realtà, dopo la nuova Prefazione dell’A., che spiega la tela del suo disegno e fa comprendere al lettore come vada inserito l’ultimo capitolo inedito nelle edizioni precedenti, nei suoi primi cinque capitoli, che rappresentano più dei due terzi del testo, è da considerarsi un saggio storico-teologico. Si parte da una serie di riflessioni sul concetto di chiamata nell’interno della Riforma Protestante per soffermarsi su come tale idea si sia modificata all’interno della stessa Riforma Protestante, passando dal più “tradizionale” luteranesimo per arrivare a quanto affermato da alcuni autori della Nuova Inghilterra e dell’Inghilterra del XVIII secolo. L’A. si confronta con L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber per mostrare come questa prospettiva (protestantesimo come fattore decisivo per la genesi del capitalismo) fosse superata già negli anni Sessanta quando, dopo gli studi di Perry e Walzer, era evidente che la preminenza del termine vocazione fosse teologica e che tale idea fosse stata applicata oltre che alla general calling (la chiamata alla salvezza per Grazia e all’impegno ecclesiastico tramite il concetto di sacerdozio universale) anche alle particular callings (ovvero i lavori particolari nel mondo secolare).

Per dimostrare la limitatezza della tesi weberiana e per analizzare la particolarità del concetto, Miegge prende in esame la trattatistica sulla vocazione di stampo puritano tra XVII e XVIII secolo, soffermandosi in particolare su Williams Perkins e Richard Baxter, ma passando anche attraverso l’opera di Steele e l’analisi di alcuni trattati sulla mercatura francesi di questi due secoli. E’ questo il nucleo centrale del volume. L’analisi mostra come, partendo dalla tradizionale concezione di Calvino che, tra i Riformatori, è il primo ad aprire verso il lavoro umano come possibile risposta alla chiamata divina, ancora ai tempi di Perkins, massimo teologo calvinista dell’Inghilterra elisabettiana, il concetto di chiamata divina era applicato principalmente alla religione e, in seconda battuta, alle attività a favore dello Stato per poi ammettere che particular callings erano anche i mestieri, prima quelli intellettuali e poi quelli di tipo materiale. Questa visione piuttosto tradizionale, a parere di Miegge, dimostra come la preminenza dell’agire razionale economico non era presente nella trattatistica del XVII secolo dove, invece, era prevalente l’interesse per l’agire politico e per l’interesse della Res Publica. Una tale tesi combacia con quella di Walzer nella sua Rivoluzione dei Santi, dove lo studioso ebreo-americano mostra come la reale vocazione puritana fosse quella di fondare una nuova res publica sanctorum dove tutti avessero il privilegio di sentirsi chiamati da Dio.
La riflessione continua con la lettura del trattato di Richard Steele dove per la prima volta, come dice l’A., assistiamo a una vera e propria spiritualizzazione dei mesteri. In questo trattato, scritto da un pastore dissenter in un periodo in cui questo gruppo di uomini aveva di fatto iniziato a perdere il proprio potere politico, mostra come s’inizi a dare sempre più importanza al lavoro, perché ci si rende conto che il credente non ha più spazi all’interno della società. Per Miegge il cambiamento di Steele, che diviene ancora più evidente in Baxter, è un cambiamento che tralascia l’interesse politico e che accetta la situazione della società senza più volerla cambiare, ma cercando comunque di primeggiare (in quanto eletti da Dio) nel campo in cui rimaneva spazio: quello dell’economia.

Questa riflessione di Steele e quella più tarda di Baxter, che vivrà in un’Inghilterra in cui i dissenters hanno del tutto perso i propri diritti politici, porta a una visione si teologica ma anche laica del lavoro che deve portare soddisfazione all’individuo e che, al contrario della tradizionale visione tomista (di cui Miegge parla nel quinto capitolo, l’ultimo dedicato alla ricostruzione storica) non vede più il lavoro manuale come una sorta di condanna voluta da Dio assolta dall’uomo, ma come una vocazione, un’attività in cui il credente (soprattutto quello provenente dal Puritanesimo) vede la sua chiamata. Una tale concezione del lavoro, quella scaturente in particolar modo dal trattato di Baxter, mostra un notevole cambio di paradigma rispetto alle idee originarie del calvinismo inglese che si possono vedere in Perkins, ma ha il vantaggio, pur essendo contestabile per la marginalizzazione dell’attività politica, di dare una dignità all’azione umana.

L’idea di Baxter, a parere di Miegge, può avere delle similarità con quella di Hannah Arendt, cui è dedicato il sesto capitolo del volume. In sostanza, secondo Miegge, benché la Arendt di Vita Activa analizzi la dignità del lavoro e benché il suo concetto di lavoro somigli a quello di Baxter, la scarsa contestualizzazione dello sfruttamento nel lavoro e la poca attenzione (se non in via talvolta polemica) data agli scritti della Scuola di Francoforte, rendono il pensiero della Arendt utile per il XX secolo, ma non completo nella sua dimensione comprensiva dello status sociale di chi lavora. Così si concludeva il volume ginevrino. L’edizione del testo pubblicata da Claudiana, invece, continua con ultimo capitolo intitolato Lavoro e vocazione nel tempo della crisi.

Il filosofo valdese in questa ultima parte del testo affronta la situazione lavorativa dell’oggi, distante molto dalla situazione dei puritani agli albori dell’età moderna. La precarietà, la fine del lavoro, la sua globalizzazione, a parere di Miegge, rendono problematica la via vocazionale al lavoro. Ecco che, però, nel XXI secolo si aprono nuove porte cui i credenti possono accedere: il cosiddetto terzo settore, i lavori “verdi” che forse potrebbero riportare in auge la particular calling di puritana memoria, facendovi rientrare anche l’interesse per la polis, ovvero per la società.
Il testo di Miegge è stato per me un tuffo nel passato, quando giovane studente di filosofia a Bari lessi per la prima volta il testo pubblicato da Bovolenta con un certo orgoglio di aver trovato un filosofo italiano protestante che cercava di far meditare la nostra stessa nazione. La ripubblicazione ampliata non può che farmi piacere e il consiglio della lettura per tutti coloro che sono interessati a questioni come il lavoro e la vocazione necessaria. Nonostante il linguaggio talvolta specialistico, il testo può essere compreso da un lettore che ha voglia di impegnarsi. Se una nota di critica va fatta è che forse l’ultimo capitolo poteva confrontarsi, oltre che con la filosofia e la sociologia, anche con il pensiero teologico odierno. Lavori come quello di Placher in America e di Herms in Germania andrebbero letti con attenzione.

                                                                                             Valerio Bernardi -. DIRS GBU



Nessun commento:

Posta un commento